========= AIFAnewsletter n.85 del 19/06/2004 =============
In questo numero:
1. RINVIATA LA SECONDA GIORNATA DEL SEMINARIO A MASSA
2. STORIE VERE
3. RASSEGNA STAMPA
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1. RINVIATA LA SECONDA GIORNATA DEL SEMINARIO A MASSA
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Per motivi tecnico-organizzativi l’AIFA di Massa ha dovuto rinviare il
seminario sull’ADHD previsto per il giorno 28 giugno p.v. La seconda
giornata del Seminario si svolgerà sicuramente entro il 25 settembre.
Per informazioni: Laurita Ricci referente.massa@aifa.it

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2. STORIE VERE
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Dalla corrispondenza di info@aifa.it
Sono la mamma di un ragazzo di quasi 16 anni a cui solo da alcuni giorni è
stata fatta diagnosi di sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività.
Ho passato anni di disorientamento, di paura, di vita a metà. L’ultimo
neuropsichiatra infantile consultato mi aveva diagnosticato una sindrome
della personalità borderlaine provocata dall’ambiente familiare.
Quando è nato Luca eravamo una famiglia normale: io avevo 31 anni, mio
marito 33, avevamo già una figlia di otto anni serena, gioiosa, brava a
scuola (ora fa il quarto anno di medicina). Avevamo entrambi il lavoro che
volevamo avere, tanti amici, una certa tranquillità economica. Luca fin dai
primi anni di vita è stato ingestibile… Avendo già avuto l’esperienza di
un’altra bambina, sentivo fortemente che la sua vivacità, la sua incapacità
di stare fermo, il suo sonno disturbato e troppo breve, la sua smania di
fare fare e ancora fare senza mai darsi uno stop, la sua inquietudine, la
sua incapacità di stare ad ascoltare la lettura di una fiaba anche solo per
cinque minuti, erano il segno di qualcosa che non andava.
Nessuno dei pediatri e, più avanti, dei neuropsichiatri infantili consultati
riscontrava però qualcosa di anomalo.
In terza elementare Luca ha rischiato la prima bocciatura: non faceva i
compiti, perdeva tutto il materiale scolastico, non stava seduto nel banco.
Era ingestibile anche a scuola e le maestre mi convocavano continuamente. A
casa vivevamo come in un incubo: la cosa più difficile era salvaguardare la
figlia, cercare di garantirle un minimo di traquillità.
Poi Luca ha avuto una pubertà precoce e un inizio di adolescenza drammatico:
40 e più sigarette al giorno, alcool, intemperanze, crisi di collera,
contrasti infiniti con i professori, che lo detestavano e sfogavano la loro
rabbia (comprensibile per certi versi) su di noi. Mio marito ed io venivamo
accusati da chiunque di non saperlo educare e dentro di me mi ribellavo di
fronte a queste accuse… Avevamo un’altra figlia che nel frattempo aveva
finito il liceo classico, era piena di amici, serena, estroversa,
equilibrata: se fossimo stati così pessimi come genitori anche la figlia
maggiore ne avrebbe risentito, così mi dicevo! Poi il disastro: il nostro
matrimonio sano e saldo ha cominciato a deteriorarsi. Litigavamo di continuo
per questo figlio ingestibile, io accusavo lui di trascurarlo, di essere un
padre assente, lui accusava me di essere troppo permissiva di dare troppo
spazio al dialogo, di non saper imporre alcuna regola. L’ingestibilità di
Luca invece di renderci alleati ci rendeva nemici. Il fatto di non poter
abbassare mai la guardia ci impediva di avere uno spazio per noi due, anche
perchè Luca non dormiva quasi mai e non si riusciva a tenerlo nel letto
prima dell’una di notte. L’angoscia per questo ragazzino mi toglieva
equilibrio, pazienza, tolleranza. Così ci siamo separati dopo 22 anni di
matrimonio, con grande sofferenza. Eravamo diventati nemici: reciprocamente
pensavamo che l’altro fosse il responsabile dei comportamenti di Luca. Poi
l’incontro con il “luminare” e la sua rapida diagnosi, formulata senza aver
neppure preso in considerazione il fatto che Luca fin dai primi anni di vita
avesse manifestato comportamenti anomali: “E’ matto grave e ce lo ha fatto
diventare lei! Cosa vi aspettavate? La separazione lo ha destabilizzato”.
Ipse dixit. Ma la separazione è avvenuta 12 anni dopo l’inizio dell’inferno:
questo dato però non contava per il professore, così come non gli
interessava che la prima bocciatura di Luca l’avesse subita quando noi due
eravamo insieme, ancora – anche se per poco – uniti e saldi.
Nell’ultimo anno l’inferno è diventato – semmai fosse possibile pensarlo –
peggiore. La mia già forte insicurezza si è trasformata in disorientamento
totale. Se avevo rovinato mio figlio, al punto da farlo impazzire come aveva
detto il luminare, come avrei potuto aiutarlo? Poi Luca ha iniziato ad avere
crisi di rabbia sempre più forti, durante le quali sfasciava letteralmente
la casa. Il luminare nel frattempo lo sottoponeva a una terapia
psicoanalitica: durante i nostri rari contatti – sempre sollecitati da me –
confermava che era “gravemente matto”. Allora gli chiedevo: “Ma se è matto
forse dobbiamo toglierlo dalla scuola normale, forse dobbiamo fargli
condurre una vita diversa da quella degli altri ragazzi”… Lo supplicavo di
darci delle dritte che ci consentissero di sopravvivere e che aiutassero lui
a integrarsi meglio nel mondo. Ma lui si sottraeva affermando che ero
abbastanza intelligente da poter trovare le risposte da me: io lo avevo
fatto impazzire, io dovevo farlo rinsavire, ma io che sono mediamente
intelligente, ma non sono un clinico, di risposte non ne trovavo neanche
una. Accettavo di essere maltrattata dal luminare perchè era riuscito ad
agganciare Luca e mi sembrava che questo risultato valesse lo scotto di
sentirmi un mostro sul banco degli imputati: una parte di me credeva al
luminare (sì forse avevo sbagliato tutto, ma l’altra mi diceva che avevo
troppo voluto e amato quel bambino per averlo rovinato fin dai primi mesi di
vita. Lui mi diceva anche che se la mia influenza era stata così devastante
per il mio secondo figlio per forza di cose avrebbe dovuto rivelarsi
negativa anche per la figlia, che invece nel frattempo era diventata una
ragazza felice, che percorreva agevolmente la sua strada.
Poi Luca decide di non incontrare più il luminare e non so perchè. A
settembre ha ammesso di non stare bene – agitato, rabbioso, infelice solo
com’era – e allora, con sollievo, gli ho cercato un altro medico dell’anima
(un’ anima storta aveva detto il luminare). Ho trovato un neuropsichiatra
intellettualmente onesto che ha voluto sapere tutto di Luca bambino e che
qualche giorno fa mi ha detto che, a suo avviso, la sua drammatica
adolescenza non è altro che la naturale evoluzione della Sindrome da Deficit
dell’attenzione e iperattività mai diagnosticata. Ora, questo nuovo medico
che non mi aggredisce e non mi accusa ma anzi cerca di ridarmi un po’ di
fiducia, mi propone una cura farmacologica, utile per spezzare il circolo
vizioso in cui Luca si dibatte. Ritiene però che sarebbe meglio iniziarla in
un ospedale ma l’unico reparto di neuropsichiatria infantile che conosco,
perchè per due volte vi abbiamo dovuto ricoverare Luca, è diventato
inaccessibile poichè è gestito dal luminare il quale ha formulato una
diagnosi diversa: “Andrea è matto grave!”.  Vi chiedo di aiutarmi…
Lettera firmata, 11/12/2003

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3. RASSEGNA STAMPA
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* La Nuova Sardegna – Una vita difficile che scorre nel più totale
isolamento – Donata Vivanti, medico ed esperta in malattie neurologiche come
autismo, dichiara che a livello farmacologico ci sono fondate speranze che
la nuova generazione di neurolettici atipici saranno in grado di dare un
grande contributo per curare malattie come iperattività, deficit
dell’attenzione ed autolesionismo.
Una vita difficile che scorre nel più totale isolamento
La Nuova Sardegna 11/06/2004
ROMA. L’autismo è il peggiore degli handicap, perché pur accompagnandosi ad
un aspetto fisico
normale è un handicap grave che coinvolge diverse funzioni cerebrali e
perdura per tutta la vita.
Questo è uno dei dati diffusi su internet dalla dottoressa Donata Vivanti,
studioso di questa malattia.
L’esperta dice che a livello farmacologico ci sono fondate speranze che con
la nuova generazione
di Neurolettici Atipici che si stanno testando negli Stati Uniti, si possa
arrivare, anche se non a
breve, ad ipotizzare una cura farmacologica in grado di dare un grande
contributo, soprattutto sulle
forme di iper-attività, deficit dell’attenzione ed autolesionismo.
L’autismo colpisce, secondo stime recenti, 1 persona su 1000, e 2 persone su
1000 ne presentano
alcuni sintomi potendo venire incluse nello “spettro autistico”. L’autismo
viene considerato dalla
comunità scientifica internazionale (classificazione ICD 10 dell’OMS e DSM
IV) un disturbo
pervasivo dello sviluppo, e si manifesta entro il terzo anno di età con
deficit nelle seguenti aree:
comunicazione, interazione sociale, immaginazione. Inoltre le persone
autistiche possono
presentare problemi di comportamento.
L’autismo è talvolta associato a disturbi neurologici aspecifici, come
l’epilessia, o specifici, come la
sclerosi tuberosa, la sindrome di Rett o la sindrome di Down. Qal’è la causa
dell’autismo? L’autismo
non ha una singola causa: molteplici geni e fattori ambientali, come virus o
sostanze chimiche,
possono contribuire a determinare il disturbo autistico. Gli studi su
persone autistiche hanno trovato
anomalie in diverse strutture cerebrali; questi dati suggeriscono che
l’autismo derivi da una
interruzione nello sviluppo cerebrale in una fase precoce della vita
intrauterina. La caratteristica più
evidente della malattia è l’isolamento.
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* Farmacia.it – Salute: Valpiana, rischio abuso psicofarmaci per bambini –
La parlamentare di rifondazione comunista Tiziana Valpiana, nella sua
interrogazione parlamentare denuncia il rischio che anche in Italia, su
input delle case farmaceutiche che lo producono, il Ritalin possa diventare
una farmaco ad uso e abuso di genitori ed insegnati, con il colpevole aiuto
dei pediatri. Il sottosegretario alla Sanità Antonio Guidi, nella sua
risposta alla parlamentare, ribadisce la sua fiducia a pediatri e
neuropsichiatri infantili.
SALUTE: VALPIANA, RISCHIO ABUSO PSICOFARMACI PER BAMBINI
Farmacia.it 10/06/2004 16:41
(ANSA) – ROMA, 10 GIU – Rischio abuso di ‘pillole della tranquillita’ per i
bambini, denuncia la
parlamentare di rifondazione comunista Tiziana Valpiana. Il Ritalin, un’
anfetamina della famiglia
della cocaina e della morfina, e’ passato per decreto ministeriale del marzo
2003 dalla tabella degli
stupefacenti a quella degli psicofarmaci, questo vuol dire, ha spiegato la
parlamentare, che oggi
anche in Italia questo farmaco puo’ essere somministrato anche ai bambini
come gia’ accade negli
Stati uniti dove l’allarme della comunita’ scientifica conferma la presenza
di un vero e proprio
esercito di piccoli dipendenti da farmaci”. Nella sua interrogazione a
risposta immediata presentata
lo scorso 19 maggio, la parlamentare di Rifondazione Comunista, Tiziana
Valpiana ha denunciato il
rischio concreto che anche in Italia, su input delle case farmaceutiche che
lo producono e
commercializzano, il Ritalin possa divenire la ‘pillola della tranquillita’
ad uso ed abuso di genitori ed
insegnanti, con il colpevole aiuto dei pediatri che lo prescrivono senza
fornire informazioni sui
devastanti effetti collaterali provocati dal farmaco”. Nella sua risposta il
sottosegretario alla Sanita’
Antonio Guidi, ha riferito Valpiana, pur condividendo in parte l’allarme per
un possibile abuso di
psicofarmaci sui bambini, ha tuttavia ribadito la sua fiducia a pediatri e
neuropsichiatri infantili “certo
che mai questi si presteranno a eventuali strumentalizzazioni del mercato” .
“Una risposta
assolutamente insufficiente ha ribattuto Tiziana Valpiana che lascia aperti
tutti i dubbi e le denunce
fatte sull’uso di psicofarmaci sui minori. Perch? nella sanita’, come nella
scuola e nei servizi sociali
la politica messa in atto dal governo e’ quella di abbattere i costi
tagliando i servizi. E quando si
parla di salute mentale il rischio gravissimo e’ quello di privilegiare
scelte di tipo farmacologico a
fronte di interventi complessivi che sappiano mettere al centro il bambino e
le sue esigenze.
Viviamo in una societa’ che rende difficile mantenere un equilibrio in cui i
bambini abbiano
riconosciuti i loro spazi e le loro attivita’, cosi’ che e’ molto piu’
facile e conveniente sedare queste
richieste. E il Ritalin e’ uno strumento adatto a cio’!”. (ANSA).
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La Stampa – Gli psicofarmaci ai minori “Sbagliato demonizzarli” – La procura
di Torino ha iscritto nel registro degli indagati 94 medici piemontesi per
la somministrazione di farmaci pericolosi a minori, ma il professor Roberto
Rigardetto, direttore della Clinica di Neuropsichiatria infantile
dell’Università di Torino, ne difende l’uso dichiarando: “Si guardano le
possibili alternative; psicoterapia a tempo breve, e lungo, psicomotricità.
Ma se il caso è acuto, se è molto forte, allora si deve intervenire con lo
psicofarmaco”
Gli psicofarmaci ai minori «Sbagliato demonizzarli»
La Stampa 15/06/2004
L’INDAGINE SU 94 MEDICI RINNOVA UNA POLEMICA SEMPRE APERTA Il direttore
della clinica
neuropsichiatrica infantile ne difende l’uso «Quando il caso è acuto sono
l’unica strada per poter
intervenire»
Marco Neirotti
C’è l’indagine del procuratore aggiunto Guariniello. Ci sono 94 medici
indagati. C’è un farmaco, la
paroxetina, sotto accusa. Il farmaco è un antidepressivo, è stato usato per
terapie su minori,
bambini e adolescenti. Avrebbe avuto effetti collaterali di tale portata da
spingere al suicidio.
L’inchiesta darà i suoi risultati, ma questa vicenda ripropone e sottolinea
un problema: psicofarmaci
sì o no sotto i diciotto-sedici anni? «C’è una storia di questi farmaci e ci
sono due estremizzazioni
da scalzare per quanto riguarda la somministrazione», è il primo commento
del professor Roberto
Rigardetto, direttore della Clinica di Neuropsichiatria infantile
dell’Università di Torino.
Professor Rigardetto, qui si parla di pericolosità, addirittura letale.
«L’Istituto Mario Negri ha segnalato con tempestività che l’Ente britannico
per il controllo del
farmaco avvisava di casi di suicidio in seguito all’uso di paroxetina. Altri
avvertimenti arrivavano
dagli Stati Uniti a proposito di altri antidepressivi, inibitori della
ricezione della serotonina».
Cioé bambini e adolescenti a rischio per una cura?
«E’ qui l’equivoco da sfatare del tutto. Fondamentale è la gravità della
situazione, che presuppone
una diagnosi specialistica approfondita. Si guardano le possibili
alternative: psicoterapia a tempo
breve, a tempo lungo, psicomotricità. Ma se il caso è acuto, se è molto
forte, allora si deve
intervenire e si interviene con lo psicofarmaco».
Lei, professore, sta dicendo, che esistono casi molto gravi anche in età
bassa.
«Esatto. Una volta il periodo critico era l’adolescenza, ora è come se
l’adolescenza si abbassasse,
come se anticipasse, calando fino ai dieci o undici anni, quando già
insorgono disturbi molto gravi».
Non si può intervenire con la psicoterapia tradizionale?
«Se uno ha la peritonite il chirurgo non dà medicine, lo opera. Qui è
l’equivalente. Puoi scegliere: lo
curo o non lo curo».
Però questi discorsi sugli effetti secondari…
«Per questo parlo di consulenze e quindi prescrizioni specialistiche. Io non
devo affibiare una
medicina, devo valutare l’effettiva gravità, i possibili effetti secondari,
partire da dosi minime per
leggere le reazioni, poi decidere se è meglio o peggio la via farmacologica
o un’attesa di
evoluzione. E’ una responsabilità enorme».
Lei conferma che esistono momenti in cui non si può fare diversamente.
«Confermo, sì. Non posso fare psicoterapia d’improvviso a chi non l’accetta
o lasciar morire
l’anoressica grave che rifiuta ogni dialogo. Allora lo psicofarmaco diventa
come il lazo per i cow
boys. Non si risolve il problema con la pillola o l’iniezione. Lo si placa
fino al punto di iniziare il
dialogo vero. Detto alla buona: se non lo acchiappo, non ottengo nulla».
A volte le terapie farmacologiche durano a lungo.
Rassegna PSICHIATRIA INFANTILE
«Negli adulti, certo, ma nei ragazzi non si fanno terapie croniche, si
esamina il tempo necessario
per arrivare ad altre forme di incontro».
E’ una valutazione comunque a rischio.
«Certo, e il rischio se lo assume lo specialista. Non parliamo di aspirina,
parliamo di pastiglie o
gocce o che altro che se non valutati bene possono avere conseguenze
drammatiche. Allora si
parte con dosi minime, si monitorizzano le reazioni, poi magari si sale
leggermente fino a ottenere
quel miglioramento che apre le altre strade. Non si parla di sì o no, di fa
bene o fa male, si parla di
casi singoli ben studiati, si parla di quando e di come somministrare».
E le famiglie?
«Diciamo una cosa chiara sulle famiglie. Qualcuna ha un senso di rifiuto
all’idea del farmaco come
se fosse il farmaco la conferma del problema. Qualcuna all’opposto lo chiede
come una soluzione e
questo è un tirarsi indietro, è un cambiare rotta, non voler capire che se i
genitori non collaborano
non gli si può da fuori aggiustare il figlio come si fa con un’auto. Non mi
stanco di ripeterlo: non
psicofarmaco uguale demonio, non psicofarmaco uguale guarigione. E’ uno
strumento – da valutare
con grande minuzia -, singolo caso per singolo caso, ricordandosi della
propria responsabilità».
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Salutest – Quando serve aiuto – Lungo articolo in cui si parla di salute
mentale di bambini e adolescenti. Il disagio nei minori si classifica in due
categorie principali: disturbi dello sviluppo psicologico, che vanno dal
rallentamento o deterioramento di funzioni specifiche (dislessia) alla
compromissione globale dello sviluppo (autismo); disturbi emotivi e del
comportamento, che includono l’iperattività, i disturbi dell’attenzione,
ansia e depressione. Nell’articolo si parla della reintroduzione in Italia
del Ritalin, farmaco a base di metilfenidato, e delle limitazioni che il
Ministero della Salute ha messo in atto per impedire che si abusi del
farmaco.
Quando serve aiuto
Salutest 15/06/2004
N°49 – APRILE 2004
La salute mentale dei bambini e degli adolescenti è un argomento che non ha
ancora ricevuto
l’attenzione che merita. Dare cifre per definire la dimensione del problema
non è facile: non sono
uniformi i limiti di età entro cui si considera prevalente una certa
categoria di disturbi e, in generale,
sono disomogenei i criteri di classificazione. Per questo i numeri variano
molto: chi parla di
un’incidenza del 2%, chi si spinge fino al 20%. È anche vero che se è
relativamente semplice
accertarsi del benessere fisico dei propri figli, può essere più complicato
cogliere i segni di un
disagio psichico. Eppure, è importante riconoscerli e – quando è
necessario – agire
tempestivamente: non è detto, infatti, che le manifestazioni di disagio
passino da sole con il tempo,
e anche un’eventuale attenuazione dei sintomi potrebbe non significare che
tutto si è risolto. Non
bisogna dunque avere timore di chiedere consiglio a uno specialista, in caso
di dubbi: a partire dagli
insegnanti di scuola e asilo, che grazie alla loro vasta esperienza nel
campo dei bambini in generale
sviluppano una buona capacità di distinguere i segni di problematicità che
meritano attenzione e
spesso sono in grado di indicare a quali strutture di aiuto presenti sul
territorio ci si può rivolgere.
Così come è normale per i genitori tenere sotto controllo la salute fisica
dei bambini (prestando
attenzione a eventuali sintomi riportati dai bambini stessi, controllandone
la crescita regolare,
curando la dieta), senza trasformare questo atteggiamento in un controllo
ansioso, la stessa
attenzione tranquilla dovrebbe essere prestata alla loro salute psichica.
Anche in questo caso,
infatti, un intervento in caso di eventuali problemi può essere fondamentale
per una più facile
risoluzione e una crescita serena e armoniosa. Purtroppo, c’è da dire che i
segnali di disagio
mentale nei bambini possono non essere facili da distinguere, anche perché
spesso sono differenti
da quelli che caratterizzano questo tipo di problemi negli adulti. In alcuni
stadi della vita del
bambino, inoltre, non è facile distinguere tra comportamenti normali e
patologici. C’è anche da
notare che oggi i nuclei familiari vivono spesso isolati; inoltre nelle
famiglie ci sono meno bambini,
rispetto a quanto avveniva nelle famiglie allargate di una volta. Questo fa
sì che ci siano meno
possibilità di fare confronti: i genitori hanno meno esperienza e meno
capacità di distinguere cosa è
fisiologico e cosa può essere segno di disagio. . Fattori di rischio. Come
per la salute fisica, anche
per la salute mentale si riconosce l’esistenza di un certo numero di fattori
di rischio. Molto è stato
scritto e detto sull’argomento: sembra comunque assodato che esistano
situazioni in grado di
favorire la comparsa di disturbi psichici nei bambini. Si tratta di
situazioni potenzialmente negative,
che generano stress e implicano l’incertezza di come il bambino potrà
reagire. La risposta del
bambino dipenderà a sua volta da molti fattori, sia caratteriali, sia legati
alle esperienze vissute nei
primi anni di vita. Il fattore di rischio più citato e studiato è lo stato
di grave povertà (in senso
economico, ma anche sociale), che può implicare una serie di altri fattori
di rischio, quali
alimentazione e igiene inadeguate, povertà di comunicazione e mancanza di
attenzione e stimoli da
parte della famiglia. Ci sono altri fattori ritenuti a rischio per
l’insorgenza di problemi psichici: – una
storia familiare di disturbi mentali (può riguardare i genitori o altri
parenti stretti); – scarsa attitudine a
imparare; – bassa stima di sé; – gravi problemi di salute o sviluppo . (tra
cui la nascita prematura); -difficoltà
di comunicazione; – conflitto tra genitori (incluso il divorzio); – morte o
perdita di una
persona cara (anche un amico); – abuso, trascuratezza in famiglia, bullismo
da parte dei coetanei.
Ci sono poi situazioni estreme che possono rappresentare importanti fattori
di rischio: la guerra, lo
sfruttamento lavorativo o sessuale, la migrazione. Per questo, l’Oms
sostiene programmi specifici
rivolti ai bambini coinvolti in queste situazioni. . Due categorie di
disturbi. In generale, per
classificare il disagio mentale nei minori si ricorre a due categorie
principali: – disturbi dello sviluppo
psicologico, che vanno dal rallentamento o deterioramento di funzioni
specifiche (per esempio il
linguaggio nella dislessia) alla compromissione globale dello sviluppo, come
nell’autismo; – disturbi
emotivi e del comportamento, che includono l’iperattività, i disturbi
dell’attenzione, l’ansia e la
depressione. . In questo articolo l’attenzione è fecalizzata sulla fascia
infantile (fino ai 10-11 anni). .
Segnali di attenzione. In linea di massima, se un bambino gioca volentieri e
frequenta con piacere i
familiari e gli amici della sua età, ci sono buone probabilità che stia
crescendo bene. Può capitare a
qualsiasi bambino di sentirsi qualche volta triste, arrabbiato o impaurito,
soprattutto se c’è stato
qualche problema. Alcuni bambini parlano volentieri di quanto ha loro
provocato paura o dispiacere,
altri preferiscono tenere per sé i loro sentimenti. Nella maggior parte dei
casi, il comportamento dei
bambini manifesta il loro stato d’animo. Quando sono tristi, spaventati o
arrabbiati, i bambini
possono avere bisogno di essere consolati, rassicurati o aiutati ad
affrontare i propri sentimenti. Il
supporto degli adulti che li circondano è importante per aiutarli a
misurarsi con i loro problemi. Se
sono tristi o irritati per periodi lunghi e continui, può esserci bisogno di
un aiuto più strutturato. Il
consiglio più importante che si può dare ai genitori è di osservare i
bambini e rivolgersi a un
professionista se si manifestano segnali sospetti. Eccone alcuni esempi: –
in età prescolare: il
bambino non gioca; non comincia a parlare o smette di farlo dopo avere
imparato; regredisce (per
esempio disimpara ad andare in bagno da solo); mostra di non notare la
presenza degli altri o di
non distinguere tra familiari ed estranei; non manifesta affetto nei
confronti dei parenti; – in età
scolare: il bambino piange costantemente e vuole sempre stare abbracciato ai
genitori; non vuole
mai essere lasciato solo; si rifiuta regolarmente di andare a letto; si
agita continuamente oltre al
normale gioco; soffre di incubi frequenti; ha un vistoso calo nel rendimento
scolastico; piange o ride
senza motivo;”non vuole più andare a scuola; diventa molto disobbediente o
aggressivo; manifesta
uno stato di paura che lo ostacola nelle normali attività quotidiane; si
perde in fantasie al punto che
interferiscono con le normali attività; ha frequenti scoppi d’ira; manifesta
crudeltà verso gli animali;
provoca deliberatamente danni (per esempio incendia o rompe oggetti). È
ovvio che uno o più
sintomi di questo tipo – molti dei quali saltuariamente possono manifestarsi
in qualsiasi bambino -devono
essere presenti con una certa frequenza, durata e regolarità: un episodio
isolato o
sporadico ha meno significato. Inoltre ne va valutata l’effettiva intensità,
quanto interferiscono con la
normale attività del bambino e quanto alterano il suo normale modo di
vivere. Spesso i genitori si
rivolgono a un aiuto soltanto quando i problemi del bambino influenzano
negativamente il
rendimento scolastico: è importante invece considerare cambiamenti
prolungati dell’umore o di
comportamento. Problemi: a chi rivolgersi? Un primo consiglio utile, se
vostro figlio manifesta
sintomi che vi preoccupano, è sentire il parere degli educatori o degli
insegnanti. Grazie alla loro
vasta esperienza nel campo dei bambini, spesso sono i primi a notare e
distinguere difficoltà che
escono dalla norma. Se tuttavia una loro eventuale rassicurazione non vi
convince, non esitate a
rivolgervi altrove. . Anche il pediatra di base può essere consultato: c’è
però da tenere presente che
non sempre gli aspetti psicologici e relazionali dello sviluppo dei bambini
fanno parte della
Rassegna PSICHIATRIA INFANTILE
formazione specifica dei pediatri. . Rivolgersi a uno specialista non
significa dover ammettere che il
bambino ha una grave patologia o “non è normale”. Al contrario, significa
che avete individuato
alcuni aspetti della sua personalità per cui potrebbe avere bisogno di
essere aiutato a procedere
sulla strada di uno sviluppo armonioso, per raggiungere un migliore
equilibrio e una maggiore
serenità. Benché siano disomogenei sul territorio nazionale, in tutte le
regioni sono presenti servizi
pubblici di base rivolti all’infanzia, talvolta collegati ai consultori
familiari, agli ospedali e alle scuole.
Tra servizi sociali, psicologici, di prevenzione, di diagnosi e cura, esiste
una rete di collaborazione,
più o meno strutturata ed efficiente. Chi deve rivolgersi in prima persona
ai servizi è la famiglia: gli
insegnanti e i pediatri possono solo favorire e incoraggiare questa scelta.
Il primo passo da fare è
chiedere informazioni alla propria Asl di competenza. I servizi pubblici che
si rivolgono alla salute
mentale dei bambini assumono sigle e strutture diverse’nelle diverse
regioni, ma in linea di massima
sono divisi in due settori fondamentali: – il versante psicologico –
relazionale (per esempio a Milano i
Cpba, Centri di psicologia bambino e adolescente), in cui lavorano
principalmente psicologi e in cui
si fa attività di informazione e guida ai genitori, psicoterapie a bambini,
genitori o entrambi e si
provvede al sostegno scolastico, dando appoggio agli insegnanti; questi
servizi sono il luogo più
adatto cui rivolgersi in caso di problemi come disturbi del sonno e
dell’alimentazione, fobie, problemi
di controllo delle attività fisiologiche, disturbi del comportamento,
conflitti familiari, gelosie,
somatizzazioni e simili; – il versante neuropsichiatrico (per esempio
nell’area di Milano le Uonpia,
Unità ospedaliere neuropsichiatriche infanzia e adolescenza), in cui
lavorano principalmente
neuropsichiatri infantili e in cui si provvede alle diagnosi, con la
possibilità di accedere ad
accertamenti strumentali se necessari (per esempio elettroencefalogramma):
spesso queste unità
sono situate presso gli ospedali. In questi centri si provvede inoltre a
impostare le eventuali terapie
farmacologiche e i percorsi riabilitativi (per esempio terapia psicomotoria,
logopedia…). Qui
vengono trattati principalmente i problemi che coinvolgono maggiormente il
lato fisico: ritardi
cognitivi, malattie genetiche, psicosi, danni cerebrali. Purtroppo, negli
anni recenti si è andata
perdendo la forte spinta a una impostazione integrata degli interventi, che
era stata impressa dalla
legge di riforma sanitaria del 7 8 (1.833/78) e prevedeva la massima
integrazione tra servizi di
prevenzione, diagnosi e cura, in ospedale e sul territorio, e luoghi di vita
dei bambini. Attualmente si
verifica al contrario una certa frammentazione degli interventi, che rischia
di far mancare un
approccio globale, considerato particolarmente importante soprattutto per i
più piccoli. Ovviamente,
per chi lo desidera, è possibile rivolgersi anche a uno specialista privato,
a pagamento. È bene
sapere che uno psicologo o uno psicoterapeuta in linea di massima agirà con
terapie psicologiche e
non prescriverà farmaci; mentre un neuropsichiatra infantile è un medico, e
quindi può prescrivere
farmaci, se necessario (vedi anche il riquadro Farmaci? Con la giusta
cautela, pubblicato a pagina
33). Diagnosi e terapie In ambito psicologico, in generale, il trattamento
di un bambino con problemi
psicologici inizia da una accurata analisi del suo passato, della situazione
della famiglia, della
personalità dei suoi genitori. È normale e anzi importante che lo psicologo
raccolga dati sulla storia
del matrimonio dei genitori (soddisfazione, conflitti, tempo che passano
insieme, divisione dei
compiti, problemi…) e in generale sulla famiglia. Non c’è quindi da
stupirsi se lo psicologo farà molte
domande ai genitori non soltanto sul bambino, ma su di loro, e non bisogna
sentirsi in colpa se
emergono problematiche legate a comportamenti dei genitori. Un aspetto
importante è che i genitori
accettino l’esistenza del problema e siano collaborativi. Nella maggior
parte dei casi ci sarà anche
un colloquio, generalmente breve, con il bambino. Gli potrà essere richiesto
di fare un disegno: il
soggetto che sceglie e i colori usati possono essere utili infatti a capire
alcuni aspetti della sua
personalità. Dopo essersi fatto un quadro completo della situazione, lo
psicologo esprimerà
un’ipotesi sulle cause dei disturbi di comportamento del bambino. Può
trattarsi di reazioni del tutto in
linea con la norma, di problemi di carattere, di normali reazioni a eventi
particolarmente stressanti
(una malattia, un lutto, un trasferimento, un cambiamento della struttura
della famiglia); può essere
la manifestazione di un disturbo psichiatrico o di disfunzioni del sistema
nervoso centrale. Ancora,
può essere una combinazione di più fattori. In ogni caso, lo specialista
esporrà alla famiglia la sua
diagnosi e proporrà la sua linea di intervento, che varierà enormemente: da
semplici consigli di
comportamento ai genitori, a una terapìa familiare a un intervento più
complesso. È comunque
fondamentale che la famiglia sia coinvolta nel trattamento. È anche
importante sapere che la
maggior parte dei problemi richiedono un semplice intervento di consigli e
supporto ai genitori.
Come prevenire? Come qualsiasi altro disturbo, anche i disturbi mentali si
possono prevenire, anzi,
è senz’altro raccomandabile farlo. In primo luogo, creando un ambiente
familiare il più possibile
favorevole e manifestando nei confronti del bambino un atteggiamento
positivo. È dimostrato che
esistono alcuni fattori protettivi: tra questi si citano una buona
intelligenza, un atteggiamento
ottimista, l’essere il bambino dotato di buone capacità comunicative, una
buona relazione con
almeno uno dei genitori, attenzione e disciplina da parte dei genitori e
degli educatori. È bene quindi
stimolare al massimo l’apprendimento del bambino, in tutti i campi, anche al
di fuori dell’ambito
strettamente scolastico. Alcuni punti sono da ritenere essenziali: – fissare
l’attenzione sempre sugli
aspetti più positivi del bambino, non sulle debolezze; – non stabilire
aspettative eccessive, ma
adeguate al livello del bambino; – dargli il sostegno necessario ad
acquisire la sua indipendenza; -mantenere
costantemente una certa disciplina nella sua vita; – stimolare la sua
curiosità
intellettuale; – offrirgli buoni modelli di linguaggio e adeguati stimoli; –
incoraggiare al più presto
attività di lettura (leggere o ascoltare storie); – incoraggiare
precocemente l’uso dei numeri e della
matematica; – aiutarlo a imparare a giocare; – dargli la possibilità di
ascoltare musica e sviluppare il
senso del ritmo.
GABRIELE: UN BUON CONSIGLIO DELLE EDUCATRICI DEL NIDO. Gabriele ha 3 anni
appena
compiuti. Fino ai 2 anni circa è cresciuto normalmente e ha sviluppato le
competenze della sua età,
sia dal punto di vista neuromotorio che comunicazionale. Nel giro di qualche
settimana diversi
eventi: la nascita di un fratellino, un trasloco e un ricovero in ospedale
per una polmonite. Al rientro,
fisicamente guarito, Gabriele è però un bambino che non ride mai, non parla
più, tende a isolarsi.
Ha frequenti crisi di collera che i genitori non riescono a consolare. Di
notte ha un sonno agitato,
rifiuta di mangiare da solo. Le educatrici del nido consigliano allora ai
genitori di consultare un
neuropsichiatra infantile, ma questo spaventa molto i genitori, che già si
sentono colpevoli e
impotenti di fronte al cambiamento del loro bambino. L’invio allo
specialista è sentito da loro come
un segno di gravita del bambino e di loro incompetenza come genitori. Solo
dopo parecchio tempo,
visto il perdurare della situazione regressiva di Gabriele e della sua
visibile sofferenza, i genitori
riescono ad accettare di ricercare un aiuto specialistico. La consultazione
permette al bambino di
trovare un ambiente accogliente, che cerca di dare un senso alle sue paure e
angosce, e permette
ai genitori di riprendere sicurezza nelle proprie competenze. Gabriele potrà
così lentamente
abbandonare le sue difese di chiusura e le sue manovre autistiche, che
rischiavano di avviarlo
verso gravi problemi di relazione.
Accettare di farsi aiutare. Intervenire tempestivamente, se un bambino ha
manifestazioni che
possano far pensare a problemi psicologici, è fondamentale. Non è detto che
i sìntomi passino da
soli con il tempo e non è detto che – se anche passano – il problema sia per
questo risolto. La prima
regola è l’attenzione e l’ascolto del bambino. Può essere utile chiedere il
parere di insegnanti ed
educatori, in generale resi competenti dall’esperienza con tanti bambini, In
caso di dubbi, è bene
non esitare a ricorrere al parere di uno specialista. In primo luogo,
facendosi indirizzare dalla
propria Asl alla struttura locale più indicata. Nella maggior parte dei
casi, consigli di comportamento
ai genitori sono sufficienti ad affrontare il problema. Se ciò non basta,
c’è un ampio ventaglio di
trattamenti psicologici cui si può fare ricorso. Una cautela tutta
particolare è raccomandabile nel
ricorso a farmaci, che non sono in generale da considerare la prima
soluzione al problema e la cui
prescrizione deve comunque essere rigorosamente riservata allo specialista
in neuropsichiatria
infantile, dopo una diagnosi del disturbo accurata e certa.
GIULIO, CHE NON VOLEVA TORNARE A SCUOLA Giulio è un bambino di 8 anni,
minuto, che
dimostra meno della sua età. È abbastanza abile in alcune attività, ma si
dimostra molto discontinuo
nelle prestazioni scolastiche. È portato in consultazione dalla mamma per un
improvviso, netto
rifiuto a fare i compiti delle vacanze e a tornare a scuola dopo l’estate.
Dopo alcuni incontri dello
psicologo con lui e poi con la sua mamma (il papa vive separato e non si
occupa molto di lui),
emerge che Giulio fin da piccolo è sempre stato estremamente ribelle,
rifiutando regole e
suggerimenti ben oltre l’età nella quale questo comportamento è da
considerarsi fisiologico. Ai test
di livello si dimostra un bambino normalmente intelligente, ma le sue
prestazioni scolastiche sono
inadeguate e soprattutto disomogenee. Alcuni momenti lavora bene, in altri
produce compiti
disordinati e pieni di errori. Le sue produzioni sono sempre al di sotto
delle sue capacità e i suoi
comportamenti non sono adeguati se confrontati a quelli degli altri bambini
della sua stessa età. La
consultazione permette di valutare che Giulio si sente un bambino insicuro,
non capace, un
bambino “cattivo” che non riesce o non vuole più soddisfare le richieste dei
grandi; si sente poco
apprezzato; il suo rapporto con l’ambiente è sempre conflittuale e
insoddisfacente e la sua idea di
sé è negativa. Sarà dunque necessario per Giulio un periodo di aiuto
psicoterapico, per riprendere
contatto e fiducia con le sue capacità di crescita, e aiutare la mamma con
un sostegno psicologico
che le permetta di dare significato ai comportamenti di Giulio. In un caso
come questo, i conflitti
psicologici ormai interiorizzati nel bambino non permettono un’evoluzione
regolare; è un caso in cui
non è opportuno aspettare altro tempo, perché è evidente che ci sono segnali
di sofferenza, che la
normale evoluzione da sola non riesce a sanare. L’aiuto esterno ha invece
ottime probabilità di
riuscire a sbloccare la situazione.
ILARIA: PRECOCI PROBLEMI ALIMENTARI. Ilaria ha 18 mesi; è la seconda bambina
di una
coppia giovane e in ottimo accordo. Da quando ha 6 mesi rifiuta quasi
totalmente il cibo, soprattutto
le cose nuove, e si limita a bere qualche biberon di latte. Dopo un periodo
di pazienti tentativi, la
madre è stata indirizzata a effettuare approfondimenti e accertamenti
medici, con più di un ricovero
in ospedale. Non solo non è emerso niente di significativo, ma il
comportamento alimentare è molto
peggiorato. La mamma è esasperata e molto preoccupata (l'”anoressia” in una
bambina così
piccola evoca fantasie catastrofiche) e non ha più risorse da sperimentare.
Sente che la bambina è
ostile e nello stesso tempo si sente in colpa come madre. Viene finalmente
indirizzata dalla sua
pediatra a una consultazione psicologica che, nel giro di qualche mese, le
permette di elaborare un
circolo vizioso di ostilità e sfiducia che ha radici nella sua stessa storia
di relazioni familiari infantili.
È così possibile progressivamente aprire la strada ad una normale relazione
di crescita e
all’emergere degli aspetti positivi del desiderio di cibo di Ilaria e della
capacità nella signora di
essere una buona madre.
FARMACI? CON LA GIUSTA CAUTELA. Ci sono indubbiamente disturbi mentali dei
bambini che
rendono opportuno il ricorso a farmaci. Prima di valutare l’opportunità di
somministrare uno
psicofarmaco a un bambino, è fondamentale la certezza della diagnosi e della
necessità del
trattamento. Per questo, solo uno specialista nel campo della
neuropsichiatria infantile dopo una
accurata visita può prescrivere un farmaco a un bambino. Recentemente, due
farmaci in particolare
sono stati oggetto di discussioni e anche polemiche. . Sta per tornare sul
mercato italiano il Ritalin,
un farmaco a base di metilfenidato utilizzato per il cosiddetto “disturbo da
deficit dell’attenzione e
iperattività”, sindrome quanto mai sfumata e problematica da diagnosticare.
In pratica è una pillola
destinata a bambini patologicamente irrequieti e incapaci di stare attenti a
scuola. Ma quale è il
limite tra normale irrequietezza, magari motivata da problemi sociali o
relazionali, e presenza di un
disturbo psicorelazionale vero e proprio? Il Ritalin è largamente utilizzato
negli Stati Uniti, dove
viene somministrato addirittura al 3-5% dei bambini in età scolare; ma
secondo alcuni esperti il
disturbo da deficit dell’attenzione viene diagnosticato in maniera troppo
precipitosa e sommaria
(l’incidenza reale non supererebbe il 7 per mille). Già ad aprile del 2003
(ST43, aprile 2003)
avevamo messo in guardia sulla evidente presenza, in Italia, di un mercato
possibile per gli
psicofarmaci: basta pensare che, al momento, i bambini che fanno uso del
Ritalin nel nostro Paese
sono solo circa un migliaio. È vero che il ministero della Salute ha messo
in atto una serie di
limitazioni per impedire che si abusi del Ritalin: potrà essere prescritto
soltanto all’interno dei Centri
specialistici di neuropsichiatria infantile individuati dalle singole
Regioni, che dovranno definire un
piano terapeutico e di controllo per ciascun bambino. Inoltre, l’Istituto
superiore di sanità sta
preparando un registro nazionale dei bambini che useranno il Ritalin, per
controllare quanti e per
quanto tempo sono i bambini in cura. In ogni caso, la situazione è da tenere
sotto attento controllo. .
Sia l’Agenzia sanitaria britannica di controllo sull’uso dei farmaci, sia
quella statunitense (Fda)
hanno espresso preoccupazione per l’aumento dei casi di suicidio o rischio
di atti di violenza nei
bambini e adolescenti in trattamento con antidepressivi. I farmaci imputati
appartengono alla classe
degli inibitori del reuptake di serotonina. Come spiega Maurizio Bonati,
responsabile del Laboratorio
per la Salute matemoinfantile dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario
Negri di Milano, si tratta
di farmaci comunemente utilizzati per il trattamento dei disturbi depressivi
maggiori nell’adulto, ma
la cui efficacia e sicurezza nei bambini e negli adolescenti sono ancora da
documentare in modo
adeguato. In tale contesto, dove i rischi (gravi) superano i dimostrati
benefici, l’Agenzia inglese ha
vietato l’uso di questi farmaci, con la sola eccezione della fluoxetina, nei
pazienti minori di 18 anni.
Dal canto suo la Fda americana, oltre a segnalare agli operatori sanitari i
potenziali rischi, ha
incaricato una commissione tecnica di esperti di valutare tutti i dati
disponibili (anche quelli che le
ditte produttrici forniranno) ed esprimere un giudizio entro i prossimi sei
mesi. I recenti
provvedimenti sono conseguenti sia alla denuncia/testimonianza di alcuni
genitori, sia alla
presentazione dei risultati di due studi clinici condotti con bambini e
adolescenti con depressione
maggiore. In Italia, sottolinea Maurizio Bonati, stime accurate circa
l’entità della patologia nella
popolazione pediatrica e la terapia farmacologica utilizzata non sono
disponibili. Le analisi effettuate
dal Laboratorio per la Salute maternoinfantile del Mario Negri e dal Cineca
di Bologna, nell’ambito
del Progetto Nazionale Arno, documentano che nel 2002 i giovani italiani con
meno di 18 anni in
terapia con farmaci antidepressivi di questa classe sono stati 2,1 ogni
1.000 (una stima di circa
22.000 pazienti bambini o adolescenti). Il farmaco più utilizzato è stato,
come per gli adulti, la
paroxetina. In considerazione del numero di pazienti pediatrici in terapia,
della discutibile efficacia
terapeutica di questi farmaci in questa popolazione e della gravita dei
potenziali rischi, gli esperti del
Mario Negri chiedono che anche in Italia si proceda tempestivamente a
definire in modo appropriato
la dimensione del problema; valutare i benefici e i rischi dei trattamenti;
stilare indicazioni per gli
operatori sanitari e informazioni per i pazienti e le loro famiglie;
monitorare in modo sistematico e
duraturo la qualità delle cure che i bambini e gli adolescenti con disturbi
psichici ricevono.
_________________________
USA Today – Expert: Medication has more lasting impact – Russell Berkeley,
psichiatra e professore presso la Medical University del South Carolina,
commenta lo studio condotto dal National Institute of Mental Health su più
di 600 bambini affetti da ADHD. Lo studio ha evidenziato che l’ambiente che
circonda i bambini ADHD (scuola, famiglia) può essere di aiuto, ma ancora
più utili possono essere le terapie farmacologiche.
Expert: Medication has more lasting impact
USA Today 16/06/2004 Greg Toppo
Small classes and individual attention may help ADHD kids, but research
shows that medication
helps more, says Russell Barkley, a psychiatry professor at the Medical
University of South Carolina
in Charleston.
Small classes and individual attention may help ADHD kids, but research
shows that medication
helps more, says Russell Barkley, a psychiatry professor at the Medical
University of South Carolina
in Charleston.
A National Institute of Mental Health study of more than 600 ADHD-diagnosed
children — the largest
ADHD study ever — showed that those getting medication were the only ones
with lasting benefits,
even though others got ”the most intensive psychological treatment that has
ever been done,”
Barkley says.
He says the methods of Albany, N.Y., teacher Chris Mercogliano ignore
”voluminous scientific
literature” as well as brain imaging, which shows that ADHD produces
neurological differences that
can’t be overcome through changes in kids’ environments.
Family and school environments play a role, he says — another study of
ADHD-diagnosed
kindergartners found that changing those factors ”resulted in a tremendous
improvement.” But three
months after students left that intensive program, all gains were lost.
”There was no carryover outside the school,” Barkley says.
Environmental or psychological treatments are only useful the day you use
them, he says. ”The day
you stop treatment is the day you go back to being ADHD.”
The disorder, he says, is much like diabetes — manageable but chronic. ”I
cannot get rid of it, and if
I stop my intervention, you’re going to go back to being like you were
before.”
_________________________
USA Today – ADHD kids taught with patience — not drugs – Intervista a Chris
Mercogliano, co-direttore ed insegnante presso la Albany Free School che
presenta il suo libro “Teaching the Restless”; Mercogliano descrive
l’approccio della sua scuola nei confronti dei bambini ADHD, approccio
finalizzato a una gestione del disturbo senza l’uso di farmaci.
Rassegna PSICHIATRIA INFANTILE
ADHD kids taught with patience — not drugs
USA Today 16/06/2004
All children — even those diagnosed with Attention Deficit Hyperactivity
Disorder — can be taught
without drugs such as Ritalin, says Chris Mercogliano, co-director and
longtime teacher at the
Albany Free School, a private day school in upstate New Yor
All children — even those diagnosed with Attention Deficit Hyperactivity
Disorder — can be taught
without drugs such as Ritalin, says Chris Mercogliano, co-director and
longtime teacher at the
Albany Free School, a private day school in upstate New York. n ADHD affects
an estimated one in
24 children ages 9 and older; doctors generally treat ADHD by prescribing
stimulants such as Ritalin
. Though most research finds these drugs are safe and non-addictive, a few
critics say ADHD is
over-diagnosed. n Mercogliano outlines his unorthodox approach in a new
book, Teaching the
Restless (Beacon Press), which follows the lives of a handful of children at
the Albany school, which
was founded in 1969. About half of the school’s 55 students, ages 2 to 14,
attend because of
learning and behavioral difficulties, Mercogliano says. About one-third of
students come from the
inner city, one-third from middle-class neighborhoods and a third from
outlying areas. The key to
teaching these children, he tells USA TODAY’S Greg Toppo, is to allow their
abilities to grow
according to their own developmental timetables.
Q: In the book, you say every ”Ritalin kid” you’ve ever met has ”unmet
needs and emotional
turbulence — not disease.” Have you ever met a kid who defied this
prognosis?
A: Some kids — not an insubstantial number — end up being labeled and
drugged because the
conventional classroom fails to meet their quite healthy need to be noisy
and physical, and to learn
at their own pace. The unhealthy diet of routine, repetition and control
leaves them bored and
frustrated. Some resist actively by acting out and refusing to do as they
are told. Others resist
passively by not paying attention or making the necessary effort to keep up
with the rest of the
class. In my 30 years of teaching, I have yet to meet a child whose
behavioral or learning difficulties
couldn’t entirely be explained by his or her story. Once you get to know
children well enough, you
quickly discover that their problematic ways of being are not symptoms of
some chemical imbalance
in the brain. Rather, very often they are distress signals to which no one
has been paying enough
attention. That’s my definition of an ”attention deficit.”
Q: Could you describe your school’s approach?
A: We don’t rush learning. There are no compulsory classes, grades or
standardized tests. Formal
student assessment takes place at midyear when teachers collaborate on a
narrative report about
each student’s progress, followed by an in-depth parent conference.
Students govern the school by means of a weekly, all-school meeting, in
which students and
teachers have an equal vote. Conflicts and other urgent problems are
addressed on an ad hoc
basis in student-led council meetings that can be called at any time. What
makes the freedom work
is the fact that empowered children who are expected to be responsible for
themselves and for each
other respond with an amazing degree of maturity. They don’t need to be
watched and managed all
the time, and they don’t need to be prodded to learn. (Nearly all graduate
and continue onto college,
he says; in the past 10 years, only two of his students failed to graduate.)
Q: Given the push toward standards-based reform, especially for low-income,
minority kids,
don’t kids need less freedom and more structure?
A: No Child Left Behind is forcing public schools to lay more and more
structure on all students, not
just low-income or minority kids. And the constant pressure to ”stay on
task” is robbing teachers of
the necessary flexibility to meet all of their students’ needs.
Q: Can your approach be replicated by a teacher with 30 kids in her class,
five of whom have
been diagnosed with ADHD? If not, what can you suggest?
Any teacher can turn a classroom into a self-governing community where
students share the
responsibility for making and maintaining rules and resolving conflicts.
Very often, peer discipline
and mediation are much more effective than adult-imposed authority, to which
ADHD-type kids tend
to respond poorly.
Also, schools can make use of volunteers and student interns to cut down on
high student/teacher
ratios — at no cost. Education, especially at the elementary level, has
become over-professionalized;
schools have become too walled-off from the community. It doesn’t take a
master’s degree to read with children or help them learn long division. What
many kids need most is
plenty of caring adult attention, and there are plenty of people out there
eager to give it. They just
need to be invited in.