1. La diagnosi di ADHD deve basarsi su una valutazione accurata del bambino condotta da un Neuropsichiatra Infantile con esperienza sull’ADHD. La diagnosi può essere formulata anche da altri operatori della salute mentale dell’età evoluiva (medici o psicologi) con specifiche competenze sulla diagnosi e terapia dell’ADHD e sugli altri disturbi che possono mimarne i sintomi (diagnosi differenziale) o che possono associarsi ad esso (comorbilità). Tale valutazione deve sempre coinvolgere oltre al bambino, i suoi genitori e gli insegnanti: devono essere raccolte, da fonti multiple, informazione sul comportamento e la compromissione funzionale del bambino e devono sempre essere considerati fattori culturali e l’ambiente di vita. A tal fine è particolarmente utile l’uso di strumenti quali i questionari e interviste diagnostiche semistrutturate, opportunamente standardizzati e validati.
2. Una elevata percentuale di bambini con ADHD presentano sintomi di altri disturbi associati ed il disturbo puo associarsi a, o talvolta causare, situazioni sociali e ambientali disagiate. La valutazione multidisciplinare (che può comprendere la collaborazione del pediatra, dello psicologo, del pedagogista e dell’assistente sociale) e’ auspicabile. Come per altre patologie, appare opportuna la definizione di un protocollo diagnostico e terapeutico comune e condiviso, in accordo con le presenti linee-guida e con l’algoritmo allegato.
3. Il programma di trattamento deve prevedere consigli e supporto per genitori ed insegnanti e può, ma non necessariamente deve, comprendere interventi psicologici specifici (es. psicoterapia). Sebbene la più ampia gamma di possibili interventi sia auspicabile, la mancata disponibilità di interventi psico-educativi intensivi non deve essere causa di ritardo nell’inizio della terapia farmacologica, quando essa sia ritenuta utile e necessaria. Come per qualunque patologia, ogni operatore sanitario che abbia formulato la diagnosi deve comunicare ai genitori o tutori legali, e discutere con loro, le diverse strategie terapeutiche ed inviare, quando opportuno, il bambini ed i suoi genitori ai Centri di Alta Specializzazione.
4. Gli psicostimolanti (ed il metilfenidato in particolare) sono i farmaci di prima scelta quale parte di un piano multimodale di trattamento per bambini con forme gravi (invalidanti) di Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività (ADHD secondo i criteri del DSM-IV) o Disturbo Ipercinetico (secondo i criteri dell’ICD-10).
5. Per quanto gli effetti indesiderati del metilfenidato siano in genere modesti e facilmente gestibili, la possibilità di uso incongruo, specie in adolescenza deve sempre essere considerata. Sono in fase di completamento numerosi studi clinici di validazione/registrazione di nuovi farmaci non-psicostimolanti potenzialmente efficaci nella terapia dell’ADHD. E’ auspicabile che tali studi permettano la definizione e la verifica di terapie farmacologiche alternative di pari efficacia con minore potenziale di abuso/uso incongruo.
6. Il metilfenidato deve essere utilizzato con estrema prudenza nei bambini con ADHD di età inferiore ai sei anni e nei bambini ed adolescenti che presentano sintomi o storia familiare di tics o di sindrome di Gille de la Tourette, ipertiroidismo o tireotossicosi, angina o aritmie cardiache, glaucoma. Deve essere prescritto con cautela nei bambini ed adolescenti con epilessia, disturbo bipolare, e precedenti di dipendenza da alcool o da sostanze psicotrope.
7. Una titolazione attenta della posologia e’ necessaria per stabilire le dosi e le modalità di somministrazione ottimali (orari, uso di preparazioni standard ovvero a rilascio prolungato, quando disponibili). Gli effetti clinici del farmaco sono rapidi: la sua somministrazione dovrebbe essere sospesa qualora non vengano osservati miglioramenti clinici significativi dopo gli appropiati aggiustamenti posologici.
8. I bambini in terapia con metilfenidato devono essere monitorati regolarmente. Dopo aver osservato un miglioramento stabile delle condizioni cliniche del bambino, il trattamento può essere sospeso sotto attento controllo dello specialista, al fine di valutare i progressi ottenuti dal bambino/adolescente e la necessità di continuare la terapia.
9. La terapia con metilfenidato può essere iniziata dal Neuropsichiatra Infantile operante in Centri di Neuropsichiatria Infantile ad Alta Specializzazione individuati dalle Regioni. La prescrizione successiva ed il monitoraggio della terapia possono però essere effettuati presso le strutture territoriali di Neuropsichiatria Infantile. E’ auspicabile che i centri ad alta specializzazione comprendano, in organico o come consulenti, le figure del pediatra, dello psicologo clinico, del pedagogista e dell’assistente sociale. E’ auspicabile che il piano di trattamento e le modalità di monitoraggio siano registrati su cartella clinica, che la prescrizione degli psicostimolanti sia registrata su apposito registro regionale e che tutta la procedura sia oggetto di un piano di farmaco-vigilanza su base nazionale ad articolazione regionale.
10. Le presenti linee guida saranno riesaminate, ed eventualmente riformulate, nel settembre 2004.
Revisione della letteratura e raccomandazioni cliniche
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1. Il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività: definizione clinica
1.1 Definizione e criteri diagnostici
Secondo i criteri del DSM-IV (APA 1994), il Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività (ADHD, acronimo per l’inglese Attention Deficit Hyperactivity Disorder, comunemente utilizzato anche in Italia) e’ caratterizzato da due gruppi di sintomi o dimensioni psicopatologiche definibili come inattenzione e impulsività/iperattività.
L’inattenzione (o facile distraibilità) si manifesta soprattutto come scarsa cura per i dettagli ed incapacità a portare a termine le azioni intraprese: i bambini appaiono costantemente distratti come se avessero sempre altro in mente, evitano di svolgere attività che richiedano attenzione per i particolari o abilità organizzative, perdono frequentemente oggetti significativi o dimenticano attività importanti. L’impulsività si manifesta come difficoltà, ad organizzare azioni complesse, con tendenza al cambiamento rapido da un’attività ad un’altra e difficoltà ad aspettare il proprio turno in situazioni di gioco e/o di gruppo. Tale impulsività è generalmente associata ad iperattività: questi bambini vengono riferiti “come mossi da un motorino”, hanno difficoltà a rispettare le regole, i tempi e gli spazi dei coetanei, a scuola trovano spesso difficile anche rimanere seduti. Tutti questi sintomi non sono causati da deficit cognitivo (ritardo mentale) ma da difficoltà oggettive nell’autocontrollo e nella capacità di pianificazione. Secondo il DSM-IV per fare diagnosi di ADHD occorre che siano osservabili almeno sei dei nove sintomi di inattenzione e/o iperattività riportati in tabella 1, che i sintomi sopra descritti esordiscano prima dei sette anni d’età, durino da più di sei mesi, siano evidenti in almeno due diversi contesti della vita del bambino (casa, scuola, ambienti di gioco) e, soprattutto, causino una significativa compromissione del funzionamento globale del bambino (APA 1994).
Tutti i bambini possono presentare, in determinate situazioni, uno o più dei comportamenti sopra descritti. Qualsiasi bambino (e la gran parte degli adulti) tende a distrarsi ed a commettere errori durante attività prolungate e ripetitive. La ricerca delle novità e la capacità di esplorare rapidamente l’ambiente devono essere considerati comportamenti positivi dal punto di vista evolutivo e come tale stimolati e favoriti. Quando tali modalità di comportamento sono persistenti in tutti i contesti (casa, scuola, ambienti di gioco) e nella gran parte delle situazioni (lezione, compiti a casa, gioco con i genitori e con i coetanei, a tavola, davanti al televisore, etc.) e costituiscono la caratteristica costante del bambino, esse possono compromettere le capacità di pianificazione ed esecuzione di procedure complesse (le cosiddette funzioni esecutive).
Secondo i criteri del DSM-IV possono essere distinti tre tipi di ADHD: uno prevalentemente inattentivo, uno prevalentemente iperattivo /impulsivo ed uno combinato (APA 1994). I bambini con ADHD mostrano, soprattutto in assenza di un supervisore adulto, un rapido raggiungimento di un elevato livello di “stanchezza” e di “noia” che si evidenzia con frequenti spostamenti da un’attività, non completata, ad un’altra, perdita di concentrazione e incapacità di portare a termine qualsiasi attività protratta nel tempo. Nella gran parte delle situazioni, questi bambini hanno difficoltà a controllare i propri impulsi ed a posticipare una gratificazione: non riescono a riflettere prima di agire, ad aspettare il proprio turno, a lavorare per un premio lontano nel tempo anche se consistente. Quando confrontati con i coetanei, questi bambini mostrano una eccessiva attività motoria (come muovere continuamente le gambe anche da seduti, giocherellare o lanciare oggetti, spostarsi da una posizione all’altra). L’iperattività compromette l’adeguata esecuzione dei compiti richiesti. Questi bambini sono visti, nella gran parte dei contesti ambientali, come agitati, irrequieti, incapaci di stare fermi, e sempre sul punto di partire. Un adulto può avere l’impressione che il bambino abbia difficoltà a comprendere le istruzioni e faccia un uso improprio delle abilità di memoria.
L’incapacità a rimanere attenti ed a controllare gli impulsi fa si che, spesso, i bambini con ADHD abbiano una minore resa scolastica e sviluppino con maggiore difficoltà le proprie abilità cognitive. Frequentemente questi bambini mostrano scarse abilità nell’utilizzazione delle norme di convivenza sociale, in particolare in quelle capacità che consistono nel cogliere quegli indici sociali non verbali che modulano le relazioni interpersonali. Questo determina una significativa interferenza nella qualità delle relazioni tra questi bambini ed il mondo che li circonda. Il difficoltoso rapporto con gli altri, le difficoltà scolastiche, i continui rimproveri da parte delle figure di autorità, il senso di inadeguatezza a contrastare tutto ciò con le proprie capacità fanno sì che questi bambini sviluppino un senso di demoralizzazione e di ansia, che accentua ulteriormente le loro difficoltà. Mentre la normale iperattività, impulsività e instabilità attentiva non determinano significative conseguenze funzionali, il vero ADHD determina conseguenze negative a breve e lungo termine.
1.2 Differenze tra le classificazioni e prevalenza
L’attitudine solo recente alla formulazione di diagnosi categoriali, la scarsa tendenza, in presenza di altri disturbi psicopatologici associati, a formulare diagnosi di comorbidità e, soprattutto, la mancata disponibilità degli psicostimolanti, hanno fatto si che fanno si che in Europa, ed in Italia in particolare, l’ADHD sia stato diagnosticato meno frequentemente che in Nord-America. Tre studi epidemiologici condotti in Italia, uno in Umbria e Toscana da Gallucci e collaboratori (1993), e due in Emilia da Camerini e collaboratori (1999) e da Marzocchi e Cornoldi (2000), mostrano che, quando il disturbo viene specificamente ricercato, nella popolazione infantile generale la sua frequenza è di circa il 4% (in pratica un bambino in ogni classe di 25 alunni), non dissimile dalle stime Nord Americane e Nord-Europee (vedasi Swanson et al. 1998 per review).
L’iperattività non é una sindrome nuova: descritta per la prima volta agli inizi del secolo (Still 1902), nel corso degli anni ha ricevuto vari nomi quali sindrome ipercinetica, disfunzione cerebrale minima. Sin dagli anni 60, quando i criteri per i disturbi psichiatrici dell’età evolutiva sono stati inseriti nei manuali diagnostici (ICD-8, 1966; DSM-II 1968), le continue modifiche nelle definizioni e dei rispettivi criteri, hanno causato incertezze classificative con conseguenti differenze nazionali nell’epidemiologia del disturbo e nella definizione delle strategie terapeutiche. Sulla base di evidenze genetiche e neuro-radiologiche e’ oggi giustificata la definizione psicopatologica del disturbo quale disturbo neurobiologico della corteccia prefrontale e dei nuclei della base che si manifesta come alterazione nell’elaborazione delle risposte agli stimoli ambientali. (Swanson 1998a, 1998b).
Il Disturbo ipercinetico nella classificazione diagnostica dell’Organizzazione mondiale della Sanità (ICD-10; WHO 1992), viene oggi considerato simile al Disturbo da Deficit Attentivo con Iperattività di tipo combinato (Inattenzione + iperattività/impulsività) dei criteri del DSM-IV. La diagnosi di disturbo ipercinetico secondo l’ICD-10 richiede la contemporanea presenza, nello stesso bambino, di sintomi di inattenzione, iperattività ed almeno un sintomo di impulsività; la contemporanea presenza di altri disturbi psichiatrici (es. disturbo oppositivo provocatorio o della condotta) comporta l’inclusione in specifici raggruppamenti diagnostici (es. Disturbo Ipercinetico della condotta). L’incidenza del disturbo così definito viene calcolata nel 1-2 % dei bambini in età scolare (Swanson et al. 1998a). L’ICD10 non prevede alcuna categoria diagnostica corrispondente all’ADHD di tipo prevalentemente inattentivo del DSM-IV. Poiche’ anche in questi bambini e’ presente una significativa compromissione funzionale ed e’ osservabile una significativa risposta alle terapie farmacologiche, appare opportuno valutare clinicamente questo bambini utilizzando il DSM-IV anziche’ l’ICD-10, che lascia tali bambini in un “limbo nosografico”.
1.3 Decorso e prognosi
Il deficit attentivo può essere presente già in età prescolare. A quest’età è pero’ difficile formulare una diagnosi differenziale con altri disturbi e determinare con sicurezza la significativa compromissione del funzionamento globale: ciò rende spesso indispensabile la formulazione di una diagnosi provvisoria e discutibile l’opportunità di una terapia farmacologica (Musten et al. 1997; Swanson et al. 1998a). Il disturbo spesso persiste in adolescenza ed in età adulta: in queste età, l’iperattività si manifesta come senso interiore di irrequietezza piuttosto che come grossolana iperattività motoria, l’inattenzione comporta difficoltà ad organizzare le proprie attività o a coordinare le proprie azioni con conseguenti difficoltà scolastiche, occupazionali e sociali, frequenti incidenti stradali, etc (Cantwell 1996).
Fino a non molti anni fa si riteneva che il deficit attentivo e l’iperattività si risolvessero con l’età. In realtà, per circa un terzo dei bambini, l’ADHD costituisce una sorta di “ritardo semplice nello sviluppo delle funzioni esecutive (vedi oltre)”: all’inizio della vita adulta essi non manifestano più sintomi di inattenzione o di iperattività, indicando che il disturbo era da correlarsi ad un ritardo di sviluppo delle funzioni attentive. Circa la metà dei bambini con ADHD continuano a mostrare anche da adolescenti e spesso anche da adulti i sintomi d’inattenzione ed iperattività, accompagnati talvolta da difficoltà sociali ed emozionali.
Altri soggetti (15-20 %) possono mostrare invece una sorta di “cicatrici” causate dal disturbo: divenuti adolescenti e poi adulti, mostrano oltre che sintomi di inattenzione, impulsività ed iperattività, anche altri disturbi psicopatologici quali alcolismo, tossicodipendenza, disturbo di personalità antisociale (Cantwell 1996; Mannuzza et al. 1993; 2000). Il più importante indice predittivo di tale evoluzione è la presenza, già nell’infanzia, di un disturbo della condotta associato all’ADHD: tale associazione presenta una prognosi significativamente peggiore di quella del disturbo di condotta isolato (Taylor et.al. 1996).
Un recente International Consensus Statement on ADHD (2002), analizzando numerosi studi effettuati su campioni clinici controllati con soggetti non affetti, riporta che freqentemente i soggetti che soffrono di ADH,D non completano l’obbligo scolastico (32-40%), raramente arrivano all’università (5-10%), hanno pochi amici, sono frequentemente coinvolti in attività antisociali, mostrano maggiore frequenza di gravidanze prima dei 20 anni, di malattie sessualmente trasmesse (16%), di incidenti stradali dovuti a velocità eccessiva e, da adulti, soffrono di depressione (20-30%) e di disturbi di personalità (18-25%). Sebbene occorra considerare che tali dati fanno riferimento prevalentemente a casistiche nord-americane, per cui dovrebbero essere valutati con cautela, specie riguardo alla evoluzione antisociale, maggiormente influenzata da fattori sociali e culturali, il significativo impatto personale, familiare e sociale del disturbo deve sempre essere considerato.
1.4 Il sistema dell’attenzione e le “Funzioni Esecutive”
Negli ultimi dieci anni sono state individuate specifiche regioni del cervello capaci di modulare i singoli aspetti dell’attenzione. In particolare specifiche aree della corteccia prefrontale mediale permettono la scelta tra i diversi possibili comportamenti o attività mentali in risposta a ciò che accade intorno all’individuo, coordinano un comportamento o attività ed inibiscono gli altri (Posner et Peterson 1990). La capacità di inibire alcune risposte motorie ed emotive a stimoli esterni, al fine di permettere la prosecuzione delle attività in corso (autocontrollo), è fondamentale per l’esecuzione di qualsiasi compito. Per raggiungere un obiettivo nello studio o nel gioco, occorre essere in grado di ricordare lo scopo (retrospezione), di definire ciò che serve per raggiungere quell’obiettivo (previsione), di tenere a freno le emozioni e di motivarsi. Durante lo sviluppo, la maggior parte dei bambini matura la capacità ad impegnarsi in attività mentali che li aiutino a non distrarsi, a ricordare gli obiettivi ed a compiere i passi necessari per raggiungerli (funzioni esecutive) (Barkley 1997; 1998).
Nei primi sei anni di vita, le funzioni esecutive sono svolte in modo esterno: i bambini spesso parlano tra sé ad alta voce, richiamando alla mente un compito o interrogandosi su un problema (la cosiddetta memoria di lavoro, che, inizialmente verbale diviene ben presto non-verbale). Durante la scuola elementare, i bambini imparano a interiorizzare, a rendere “private” le funzioni esecutive, tenendo per sé i propri pensieri (interiorizzazione del discorso autodiretto). Imparano quindi a riflettere su sé stessi, a seguire regole ed istruzioni, ad auto-interrogarsi ed a costruire “sistemi mentali” per capire le regole in modo da poterle adoperare. Successivamente imparano a regolare i propri processi attentivi e le proprie motivazioni, a posporre o modificare le reazioni immediate ad un evento potenzialmente distraente, a tenere per sé le proprie emozioni ed a porsi degli obiettivi (autoregolazione). Mediante l’acquisizione di queste capacità, i bambini imparano infine a scomporre i comportamenti osservati nelle loro singole componenti ed a ricomporle in nuove azioni che non fanno parte del proprio bagaglio di esperienze (ricomposizione). Tutto ciò permette ai bambini, nel corso della crescita, di tenere sotto controllo il proprio agire per intervalli di tempo sempre più lunghi e di pianificare i propri comportamenti, in modo da raggiungere lo scopo prefissato (Barkley 1997; 1998).
Numerose evidenze indicano che il fattore patogenetico fondamentale del disturbo possa essere costituito da un deficit nelle capacità di inibizione delle risposte impulsive (response inhibition) mediate dalla corteccia prefrontale (Schachar & Logan 1990; Barkley 1997); tale deficit appare determinato dalla ipoattività del Sistema di Inibizione comportamentale, forse associato a deficit nelle capacità di condizionamento (Quay 1988, 1997). In contrasto con tale modello, è stato proposto che l’ADHD sia la manifestazione di un’alterazione della capacità di autoregolazione dovuta alla difficoltà di allocare uno sforzo adeguato (“risorse energetiche”) alla attività mentale richiesta. La “Attivazione Comportamentale” può essere definita come “prontezza comportamentale tonica alla risposta” (Sanders 1998). In accordo con tale modello cognitivo-energetico (Sergeant, et al 1999) lo stato di Attivazione ottimale e’ il prerequisito per una risposta ottimale agli stimoli. Tale Attivazione comportamentale influenza l’attività motoria ed è a sua volta influenzata dall’attività generale del sistema nervoso centrale, dalla deprivazione di sonno, dalla fatica e, soprattutto, dall’intervallo di presentazioni degli stimoli (Frowein 1981). Il livello di attivazione aumenta infatti con la velocità di presentazione degli stimoli; al contrario, quando tale intervallo si allunga, il livello di attivazione diminuisce: numerosi studi mostrano come le performance dei bambini ADHD diminuiscono quando vengono utilizzati lunghi intervalli tra gli stimoli (intervallo preparatorio) ovvero quando l’intervallo temporale tra avviso (cue) ed obbiettivo (target) aumenta (Sergeant et al. 1999; Scheres et al. 2001).
Indipendentemente dai meccanismi etiopatogenetici coinvolti, nei bambini con ADHD risultano compromesse in modo variabile le capacità di retrospezione, previsione, preparazione ed imitazione di comportamenti complessi. Un’alterata o ritardata maturazione della memoria di lavoro non-verbale comporta ritardi nella maturazione e compromissione delle altre funzioni esecutive: interiorizzazione del discorso autodiretto, autoregolazione del livello d’attenzione e della motivazione, capacità di scomporre i comportamenti osservati e ricomposizione in nuovi comportamenti finalizzati. Questi bambini, non raggiungendo la capacità d’interiorizzazione adeguata all’età, eccedono nelle verbalizzazioni e nel manifestare i propri comportamenti. L’incapacità a frenare le proprie reazioni immediate li rende meno accettati dagli adulti e dai coetanei. La difficoltà nello scomporre e ricomporre i comportamenti osservati fa si che questi bambini, sebbene siano in grado di apprendere comportamenti adeguati in risposta agli stimoli esterni, abbiano significative difficoltà a generalizzare tali comportamenti nei diversi contesti di vita (Barkley 1997; 1998; Quay 1997; Scheres et al. 2001; Sergeant et al. 1999; Sonouga-Barke et al. 1996; Tannock 1998).
1.5 Neurotrasmettitori e varianti geniche
Nella regolazione delle Funzioni esecutive è specificamente coinvolta la corteccia prefrontale che risulta anatomicamente e funzionalmente collegata con i nuclei della base (Lou et al. 1998; Swanson et al. 1998b; Tannock 1998). Negli ultimi anni è stato possibile studiare, con metodi non invasivi, le differenze di volume e di funzionamento di specifiche aree cerebrali. Tecniche di Risonanza Magnetica Nucleare hanno messo in evidenza che la corteccia frontale ed alcuni nuclei della base (nucleo caudato ed il globo pallido) dei bambini con ADHD risultano più piccoli di quelli dei bambini di controllo: tali differenze risultano maggiori nell’emisfero destro, ed appaiono correlate in maniera statisticamente significativa con alterazioni nelle capacità di inibire la risposta motoria a stimoli ambientali (Casey et al. 1997; Catellanos et al. 1996; Filipek et al. 1997; Mataro et l. 1997). Con tecniche più sofisticate è stato messo in evidenza che, nei bambini e negli adulti con ADHD, tali regioni del cervello mostrano tempi di attivazione più lenti e consumano meno ossigeno delle regioni corrispondenti dei bambini o adulti di controllo (Silberstain,et al. 1998, Zametkin et.al. 1990).
Tecniche di risonanza magnetica funzionale hanno permesso di studiare il ruolo delle diverse aree della corteccia prefrontale (in particolare delle regioni laterali, mediali, sopraorbitarie e del polo frontale) nella modulazione reciproca dei processi cognitivi e di gratificazione (Pochon et al. 2002). Nei bambini con ADHD, le stesse tecniche hanno messo in evidenza una diminuzione di flusso ematico e/o consumo di ossigeno nei nuclei della base (caudato e putamen) e della corteccia prefrontale (cingolo anteriore e corteccia prefronatale mediale) durante test di inibizione della risposta quali lo stop/change task ed il test di Stroop (Bush et al. 1999; Rubia et al. 2001; Teicher et al. 2000; Vaidya et al. 1998).
Diverse funzioni della corteccia frontale e del nucleo caudato sono modulate dalle mono-amine (dopamina, noradrenalina, e serotonina) (Goldman-Rakic 1990). Negli ultimi cinque anni diversi gruppi di ricerca hanno dimostrato che nei soggetti con ADHD sono maggiormente frequenti alcune specifiche varianti di geni che codificano per il trasportatore della dopamina e per il recettore D4 per la dopamina (DRD4), cui corrispondono differenze quantitative di funzione (Cook et al. 1995; LaHoste et al. 1996; Smalley et al. 1998; Waldman et al. 1998; Sunohara et al. 1999; Barr 2001). Una recente metanalisi su 8 studi caso-controllo e 15 studi su famiglie mostra che l’associazione tra DRD4 e ADHD sebbene modesta, e’ statisticamente significativa (Faraone et al. 2001). Un recente studio di genomewide scan ha mostrato che solo tre geni candidati (recettore dopaminergico D5, DRD5; trasportatore per la serotonina 5HTT; e CALCYON, una proteina di interazione con i recettori dopaminergici D1) presentano un lod-score superiore a 2 e che due regioni con elevato linkage (2q24 and 16p13) corrispondono a regioni ad elevato linkage anche per il disturbo autistico. (Fisher et al. 2002).
D’altra parte, l’ADHD tende ad essere presente in diversi membri di una stessa famiglia, e costituisce uno dei disturbi psichiatrici con più elevata ereditabilità. Tra il 50 ed il 90 % dei gemelli monozigoti di bambini con ADHD presenta la stessa sindrome: studi su gemelli adottati suggeriscono che tale familiarità sia genetica piuttosto che ambientale. Come per altri disturbi psichiatrici è verosimile che i fattori genetici determino la predisposizione per il disturbo, mentre l’attivazione di tale predisposizione sia modulata anche da fattori “ambientali” (Jensen et al. 1997; Jensen 2000; Zuddas et al. 2000).
1a Raccomandazione
(Standard Minimo. Forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
Nei bambini/ adolescenti di età tra i 6 ed i 18 anni che presentino inattenzione, iperattività, impulsività e scarso profitto scolastico il clinico (pediatra, psicologo, neuropsichiatra infantile) deve iniziare o far iniziare la valutazione diagnostica per ADHD.
2a Raccomandazione
(Linee Guida; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
La diagnosi di ADHD richiede che siano rispettati i criteri del DSM-IV.
3a Raccomandazione
(Standard Minimo; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte): La diagnosi si basa sull’osservazione clinica del bambino/adolescente e sulle informazioni fornita da genitori, insegnanti ed altre figure di riferimento. Da tali informazioni deve risultare evidente la presenza in diversi contesti dei sintomi cardine del disturbo, l’età di esordio, la durata dei sintomi e, soprattutto, il grado di compromissione funzionale.
2. Procedure per la diagnosi
2.1 Principi generali
La diagnosi di ADHD è in ogni caso essenzialmente clinica e si basa sull’osservazione clinica e sulla raccolta di informazioni fornite da fonti multiple e diversificate quali genitori, insegnanti, educatori. Il disturbo va sempre differenziato dalla vivacità dei bambini normali (vedi sez. 1.1), dalle condizioni legate esclusivamente a contesti sociali svantaggiati, ad esperienze traumatiche (abuso, neglect), ad atteggiamenti educativi incongrui ed a modelli sociali o familiari fortemente caratterizzati da impulsività. Il consenso e la cooperazione dei genitori sono, d’altra parte, cruciali per la valutazione del bambino in generale (King et al, 1997), in funzione della comprensione del bambino e degli interventi psicoeducativi e terapeutici.
Non esistono test diagnostici specifici per l’ADHD: i tests neuropsicologici, i questionari per genitori ed insegnanti, le scale di valutazione sono utili per misurare la severità del disturbo e seguirne nel tempo l’andamento; spesso sono cruciali per individuare eventuali patologie associate (disturbi d’ansia o dell’umore, disturbi specifici dell’apprendimento) e per studiare i meccanismi neuro-biologici che ne sono alla base (Cantwell 1996; Doyle et al. 2000; Hetchman 2000; Swanson et al. 1998). L’iperattività motoria, il disturbo dell’attenzione ed il comportamento impulsivo ed aggressivo possono essere sintomi di numerosi disturbi psicopatologici. Occorre quindi sempre verificare se tali patologie possono da un lato simulare l’ADHD (diagnosi differenziale), dall’altro essere associate all’ADHD (comorbidità). Studi epidemiologici nordamericani mostrano che, sia in campioni clinici che di popolazione, circa 2/3 dei bambini con ADHD hanno un disturbo associato.
Occorre inoltre considerare che ogni forma di deficit sensoriale parziale, sia visivo che uditivo, può determinare sia un disturbo dell’attenzione, sia un aumento della attività motoria. Disturbi dell’espressione linguistica spesso si associano a disturbi dell’attenzione ed a iperattività, legati alla difficoltà di esprimere compiutamente il proprio pensiero, ed alla difficoltà nell’usare il linguaggio interno ed esterno come sostituto dell’azione. L’iperattività può essere considerata in questo caso secondaria. L’ipertiroidismo può simulare un ADHD, ma esistono forme cliniche di ADHD associate ad ipotiroidismo. Disturbi dermatologici, come ad es. l’eczema, possono produrre comportamenti iperattivi. Forme più rare sono rappresentate dalla corea di Sydenham, che può determinare una intensa iperattività. Occorre, inoltre, sempre considerare che la trascuratezza, l’abuso, ma anche diversi farmaci (es. antiepilettici, farmaci cardiovascolari etc.) possono compromettere le capacità attentive e di autocontrollo.
Quando si sospetta che un bambino possa essere considerato come affetto da disturbo da deficit attentivo con iperattività occorre (Hill and Taylor 2001):
1. Raccogliere informazioni da fonti multiple (genitori insegnanti, educatori) utilizzando interviste semistrutturate e/o questionari standardizzati sui diversi aspetti del comportamento e del funzionamento sociale del bambino.
2. Un colloquio (esame psichico) col bambino per verificare la presenza di altri disturbi associati; anche in questo caso, le scale standardizzate di autovalutazione del bambino (ansia, depressione etc.) possono essere utili.
3. Valutare le capacità cognitive e l’apprendimento scolastico; valutare in maniera oggettiva le capacità attentive, di pianificazione delle attività e di autocontrollo. Talvolta può essere utile valutare la possibile presenza di disturbi del linguaggio.
4. Effettuare l’esame medico e neurologico, valutando la presenza di eventuali patologie associate e gli effetti di eventuali altre terapie in atto.
Un elenco di patologie e disturbi da considerare in diagnosi differenziale e’ riportato in tabella 2. Occorre considerare che i sintomi di inattenzione ed iperattività osservabili a seguito di trauma cranico o irradiazione del sistema nervoso centrale possono essere indistinguibili dall’ADHD idiopatico (Bloom et al 2001; Highfield et al. 1998; Komrad et al. 2000): numerose evidenze indicano che tali forme rispondano agli psicostimolanti (metilfenidato in particolare) in maniera simile ai sintomi dell’ADHD “primitivo” (Mahalick et al. 1998).
Quando si pone clinicamente un problema di diagnosi differenziale, puo’ essere opportuno (King et al. 1997), laddove sia patrimonio culturale dei valutatori, procedere ad una valutazione che comprenda oltre al colloquio anche tecniche di osservazione di gioco (Kernberg, 1998) e tecniche proiettive (Thomas & Silk, 1990) per la valutazione del funzionamento mentale globale della persona, della sua struttura di personalità e degli aspetti di comorbidità..
2.2 Questionari e Interviste Diagnostiche
Per la raccolta di informazioni vengono spesso utilizzati sia questionari che interviste semistrutturate. Tali strumenti possono essere esclusivamente centrati sulla sintomatologia ADHD, oppure spaziare sui diversi ambiti della psicopatologia, in modo da mettere a fuoco possibili disturbi associati (es. disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi della condotta).
I questionari maggiormente utilizzati, di cui esistono versioni italiane standardizzate od in corso di standardizzazione sono:
1. Child Behavior CheckList (CBCL, Achembach 1991; validazione della versione italiana in corso). Molto usata in studi epidemiologici, consente di definire e misurare un fattore “generale” relativo ai disturbi “esternalizzanti” del comportamento,
2. Conner’s Teacher, Rating Scale- Revised e Conner’s Parent Ratig Scale (CTRS-R, CPRS-R, forme lunga “-L” e breve “-S”; Conners 1997; validazione della versione italiana in corso)
3. Disruptive Behavior Disorder Rating Scale (DBD; Pelham 1992; versioni validate italiane: SCOD-I e SCOD-G, Marzocchi et al. 2001; Marzocchi et al. (inviato per la pubblicazione)
4. ADHD Rating Scale –IV (DuPaul et al; 1998, di cui esiste una versione italiana curata da Marzocchi & Cornoldi)
5. SNAP-IV (Swanson 1992; Conners et al. 2001)
6. L’ICD-10/DSM-IV Questionnaire (IDQ; Hartman, Geurt & Sergeant. Analisi dei dati della validazione della versione italiana in corso).
Anche la somministrazione al bambino di scale di autovalutazione per ansia e depressione (ad esempio: Multidimensional Anxiety Scale for Children, MASC, March 1997; Children Depression Inventory, CDI, Kovacs, 1992; Scale Psichitriche di Autosomministrazione per Fanciulli e Adolescenti SAFA, Cianchetti & Sannio-Fancello 2001) puo’ essere utile. E’ opportuno ricordare che le scale di valutazione completate da genitori, insegnanti e dallo stesso bambino, non consentono di formulare una diagnosi clinica: sono peraltro strumenti preziosi come complemento diagnostico per una valutazione quantitativa, per valutare l’andamento clinico o la risposta ai trattamenti.
Il loro utilizzo va sempre accompagnato dell’utilizzo delle interviste diagnostiche che esplorano l’intera gamma della psicopatologia: cio’ consente di individuare eventuali patologie associate, quali disturbi del comportamento (disturbo oppositivo-provocatorio, disturbo della condotta), disturbi dell’umore (depressione e distimia, disturbo bipolare), disturbi d’ansia (ansia generalizzata, panico, ecc.), disurbi di apprendimento, tic e disturbo ossessivo-compulsivo. Tra le piu’ utilizzate:
5. Diagnostic Interview for Children and Adolescents (DICA; Reich et al. 1997).
6. Kiddie-Schedule for Affective Disorders and Schizophrenia, Present and Life-time version (K-SADS-PL; Kaufman 1997).
7. Parent Interview of Child Symptom (PICS-IV, Scachar 1996; di cui e’ in corso la validazione della versione italiana).
2.3 Altri strumenti diagnostici
Non esistono test diagnostici specifici per l’ADHD: la caratterizzazione e misurazione delle capacita di attenzione prolungata, di pianificazione, categorizzazione e di inibizione delle risposte autamatiche (funzioni neuropsicologiche localizzate nei lobi frontali, vedi oltre) e dei processi di apprendimento consentono una più precisa caratterizzazione della sindrome, ed una migliore impostazione dei piani di trattamento. E’ sempre opportuno misurare il livello cognitivo del soggetto con strumenti standardizzati (Matrici Progressive di Raven o, meglio, WIPPSI o WISC-R) e valutare le capacità di scrittura, lettura e comprensione del testo (diagnosi differenziale con i disturbi specifici dell’apprendimento che possono simulare, ma anche essere associati ad un disturbo da deficit attentivo con iperattività).
Va sottolineato che il disturbo cognitivo non è limitato al disturbo dell’attenzione. L’elemento caratterizzante sembra essere piuttosto quello di un deficit dei processi di controllo e regolazione strategica delle risposte cognitive (le cosidette “funzioni esecutive”), che si riflettono su diversi ambiti del funzionamento dell’intelligenza (attenzione, memoria, ecc.). Gli strumenti diagnostici devono essere quindi adeguati a tale complessità. Il Continuous Performance Test (CPT) valuta il mantenimento della vigilanza per un lungo periodo di tempo, dovendo il soggetto dare risposte (premendo un pulsante) ad uno stimolo target mescolato tra diversi distrattori (con possibilità di omissioni per inattenzione o false risposte per impulsività). Un altro test, il Matching Familiar Figure Test (MFFT) valuta la capacità di inibire risposte eccessivamente rapide ed automatiche.
Un test recentemente molto utilizzato (pur con significative varianti tra diversi gruppi di ricerca) è il Change Task. In breve il test consiste in una serie di possibili risposte di Go (premere un pulsante, la maggior parte) e di Stop (in genere circa il 25%). Nelle prove di Go il bambino deve scegliere tra due pulsanti da premere a seconda della localizzazione di uno stimolo (es. un aereo) sullo schermo di un computer. In quelle di Stop un segnale acustico presentato a diversi intervalli di tempo prima dello stimolo visivo, deve indurre il bambino a interrompere l’azione di pressione del pulsante corrispondente al lato dello schermo, ma a schiacciarne un altro, situato su una “scatola” separata. Oltre che calcolare il tempo medio di reazione, il numero di errori sia di omissione (non premere il pulsante quando è presente lo stimolo acustico) che di commissione (premere il pulsante quando e’ presente lostimolo sonoro o premere il pulsante non corretto rispetto alla localizzazione dello stimolo visivo), il test permette di misurare le funzioni di inibizione e di riattivazione di processi mentali e motori (re-engagemnet). Questo test è in grado di differenziare i bambini con ADHD da quelli di controllo e dai bambini con disturbi d’ansia, dell’apprendimento (meno da quelli con altri disturbi esternalizzanti), ed e’ sensibile alla somministrazione di psicostimolanti. E’ pero’ troppo lungo e complesso per la diagnostica di routine e la standardizzazione su popolazione italiana e’ ancora in corso.
Anche alcuni items della WISC (quali il Cifrario) sono fondamentali per una formulazione diagnostica iniziale. Il test della Torre di Londra, infine, è spesso utilizzato per valutare la capacità del bambino o dell’adolescente di usare strategie complesse per la risoluzione di problemi.
Oltre alla somministrazione dell’intervista, dei test e delle scale di valutazione, l’esame obiettivo medico e neurologico è sempre necessario poiché molti bambini con ADHD presentano all’esame obiettivo dei cosiddetti “soft neurological signs”, quali ad es. asimmetria dei riflessi profondi, movimento coreoatetoidi di modesta entità, adiadococinesia, scarsa coordinazione. Occorre inoltre considerare che ogni forma di deficit sensoriale parziale, sia visivo che uditivo, può determinare sia un disturbo dell’attenzione, sia un aumento della attività motoria. Ne paesi scandinavi e’ stata caratterizzata e viene correntemente utilizzata la categoria diagnostica del Disorder of attention, motor control and perception (DAMP). Sebbene goffaggine motoria e problemi percettivi siano comuni tra i bambini con diagnosi di Disturbo Ipercinetico (HYD; criteri ICD-10) e la gran parte dei bambini con HYD (ma meno della metà di quelli con diagnosi di ADHD – DSM-IV) possa essere diagnostica come DAMP, tali sintomi non sono indispensabili per la diagnosi di HYD. La validità del concetto di DAMP è stata inoltre messa in discussione dagli autori Nord-Americani in quanto l’associazione tra anormalità del neurosviluppo ed ADHD non appare specifica: la presenza di tali anomalie di sviluppo risulta comune a molti disturbi psichiatrici dell’età evolutiva.
4a Raccomandazione
(Standard Minimo; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte): Oltre le valutazioni dei genitori, la diagnosi di ADHD richiede le informazioni degli insegnanti sulla presenza dei sintomi cardine del disturbo in diversi contesti, l’età di esordio, la durata dei sintomi ed il grado di compromissione funzionale. Per formulare la diagnosi, il medico deve sempre ottenere e valutare queste informazioni.
5a Raccomandazione
(Opzione clinica; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte): L’uso dei questionari per insegnanti e’ particolarmente utile per raccogliere informazioni in maniera rapida e relativamente accurata.
6a Raccomandazione
(Standard Minimo; forza dell’evidenza:/ buona; forza della raccomandazione: forte): La valutazione del bambino con ADHD deve sempre comprendere l’esame medico generale, l’esame psichico e l’esame neurologico e la valutazione del livello cognitivo; deve sempre includere la valutazione diagnostica della presenza di eventuali patologie associate sia neuropsichiatriche che mediche generali.
7a Raccomandazione
(Linea Guida; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
In assenza di patologie associate nessun altro test strumentale od ematochimico è routinariamente indicato per la diagnosi di ADHD.
3. Gli Interventi terapeutici
La terapia per l’ADHD si basa su un approccio multimodale che combina interventi psicosociali con terapie mediche (Taylor et al. 1996; NICE 2000; AACAP 2002). I genitori, gli insegnanti e lo stesso bambino devono sempre essere coinvolti nella messa a punto di un programma terapeutico, individualizzato sulla base dei sintomi più severi e dei punti di forza identificabili nel singolo bambino. Una maniera di concettualizzare il piano di trattamento è quello di considerare i sintomi cardine di inattenzione, impulsività ed iperattività, come gestibili mediante la terapia farmacologica, che si dimostra efficace in circa l’80- 90% dei casi; i disturbi della condotta, di apprendimento e di interazione sociale richiedono invece interventi psicosociali, ambientali e psicoeducativi, centrati sulla famiglia, sulla scuola e sui bambini (Cantwell 1996; Elia et al. 1998; Guevara & Stein 2001).
Negli Stati Uniti, dove l’utilizzo degli psicostimolanti e’ pratica accettata da decenni e alcune restrizioni sono state allentate, le linee guida raccomandano l’utilizzo degli psicostimolanti in tutti i casi di ADHD moderato o severo, a condizione che il bambino viva con un adulto responsabile che possa somministrare il farmaco, che il personale scolastico sia disponibile per la somministrazione in orario scolastico e che siano state considerate altre modalità di intervento quali il parent training od altri interventi psicoeducativi (AACAP 2002).
In Europa, dove le attitudini cliniche e le restrizioni legali hanno limitato l’uso degli psicostimolanti, le linee guida cliniche (Taylor et al. 1998) raccomandano un primo intervento basato su rigorosi ed intensi approcci psicosociali (interventi comportamentali, terapia cognitiva, terapia familiare, supporto per gli insegnanti), anche se, anche alla luce dei risultati dello studio MTA (vedi oltre), la mancata disponibilità di tali interventi non deve precludere, in via di principio, l’uso degli psicostimolanti (NICE 2000, Santosh and Taylor 2000).
L’ADHD deve essere considerato come una malattia cronica con alta prevalenza in età scolare: tutti gli operatori sanitari dell’età evolutiva devono aver cura di (AAP, 2001):
Fornire informazioni scientifiche e cliniche sulla natura del disturbo al bambino, alla famiglia ed alla comunità.
Sviluppare adeguate strategie terapeutiche, aggiornandole periodicamente in accordo con lo sviluppo del bambino/adolescente.
Verificare ed aggiornare periodicamente le conoscenze della famiglia sul disturbo e sulle strategie educative più adeguate.
Assicurare il coordinamento delle strutture sanitarie, scolastiche e ricreative (sociali) coinvolte nella vita quotidiana del bambino, garantendo la propria disponibilità alla famiglia.
Coordinare e favorire i contatti con altre famiglie con problemi simili (AAP, 2001).
Scopo principale degli interventi terapeutici deve essere quello di migliorare il funzionamento globale del bambino/adolescente. In particolare gli interventi terapeutici devono tendere a:
1. Migliorare le relazioni interpersonali con genitori, fratelli, insegnanti e coetanei.
2. Diminuire i comportamenti dirompenti ed inadeguati.
3. Migliorare le capacità di apprendimento scolastico (quantità di nozioni, accuratezza e completezza delle nozioni apprese, efficienza delle metodiche di studio).
4. Aumentare le autonomie e l’autostima.
5. Migliorare l’accettabilità sociale del disturbo e la qualità della vita dei bambini/adolescenti affetti.
3.1 Gli interventi Psicoeducativi
L’approccio psico-educativo è costituito da un varietà di interventi accomunati dall’obiettivo di modificare l’ambiente fisico e sociale del bambino al fine di modificarne il comportamento. Tali interventi sono focalizzati a garantire al bambino maggiore struttura, maggiore attenzione e minori distrazioni. Le modificazioni ambientali sono implementate istruendo genitori ed insegnanti su specifiche tecniche di ricompensa per comportamenti desiderati (rinforzo positivo) o di punizione/ perdita di privilegi per il mancato raggiungimento degli obiettivi desiderati. L’applicazione ripetuta di tali premi e punizioni può modificare progressivamente il comportamento. Nel breve termine gli interventi comportamentali possono migliorare le abilità sociali, le capacità di apprendimento e spesso anche i comportamenti disturbanti; generalmente risultano però meno utili nel ridurre i sintomi cardine dell’ADHD quali inattenzione, iperattività o impulsività. Il maggior limite dei diversi programmi oggi disponibili consiste nel fatto che, in molti bambini, si assiste alla progressiva scomparsa del miglioramento comportamentale ed alla mancata generalizzazione, nei diversi contesti ambientali, dei comportamenti positivi acquisiti.
3.2 Strutturare l’ambiente e migliorare l’autostima
I bambini con ADHD possono essere aiutati strutturando ed organizzando l’ambiente in cui vivono. Genitori e insegnanti possono anticipare gli eventi al posto loro, scomponendo i compiti futuri in azioni semplici ed offrendo piccoli premi ed incentivi. È importante che genitori ed insegnanti siano (o divengano) dei buoni osservatori: devono imparare ad analizzare ciò che accade intorno al bambino prima, durante e dopo il loro comportamento inadeguato o disturbante e a rendere comprensibili al bambino il tempo, le regole e le conseguenze delle azioni. Tutto ciò al fine di permettere ai bambini iperattivi di ampliare il proprio repertorio interno di informazioni, regole e motivazioni.
Per aiutare un bambino con ADHD genitori ed insegnanti dovrebbero acquisire le seguenti abilità:
1. Potenziare il numero di interazioni positive col bambino.
2. Dispensare rinforzi sociali o materiali in risposta a comportamenti positivi del bambino.
3. Ignorare i comportamenti lievemente negativi.
4. Aumentare la collaborazione dei figli usando comandi più diretti, precisi e semplici.
5. Prendere provvedimenti coerenti e costanti per i comportamenti inappropriati del bambino.
In generale gli interventi psicoeducativi diretti sul bambino/adolescente basati su tecniche cognitive e metacognitive tarate per età e focalizzate su:
Problem solving: riconoscere il problema, generare soluzioni alternative, pianificare la procedura per risolvere il problema, ecc.,
Autoistruzioni verbali al fine di acquisire un dialogo interno che guidi alla soluzione delle situazioni problematiche,
Stress inoculation training: indurre il bambino/adolescente ad auto-osservare le proprie esperienze e le proprie emozioni, soprattutto in coincidenza di eventi stressanti e, successivamente, aiutarlo ad esprimere una serie di risposte alternative adeguate al contesto. La acquisizione di queste risposte alternative dovrà sostituire gli atteggiamenti impulsivi e aggressivi.
3.3 Parent Training e consulenza per gli insegnanti
Non esistono a tutt’oggi dati di validazione attendibili (ovvero basati sui criteri stabiliti dalla Task Force on promotion and dissemination of Psychological Procedures (1995; Loinigan et al. 1998) sull’efficacia della psicoterapia individuale o della play therapy sui sintomi nucleari dell’ADHD (inattenzione, iperattività, impulsività; Stubbe & Weiss 1999). Interventi cognitivi individuali di training sulle abilità sociali e di problem solving, possono peraltro risultare efficaci quando associati a interventi comportamentali basati sul parent training e sull’intervento in classe (Pelham 1992, 1996, 1998; Lonigan 1998; Pfiffner et al 1998)
Classicamente il Parent Training è inizialmente composto da 8-12 sessioni settimanali di un gruppo di genitori con un terapista specificamente formato. Il programma delle sessioni è focalizzato al miglioramento della comprensione da parte dei genitori delle caratteristiche del bambino con ADHD e nell’insegnamento di abilità che permettano di gestire e migliorare le difficoltà che tali caratteristiche comportano. I programmi offrono tecniche specifiche per guidare il bambino, rinforzare i comportamenti sociali positivi e diminuire o eliminare quelli inappropriati; nell’ambito di tale training vengono pianificate anche le attività di mantenimento dei risultati acquisite di prevenzione delle ricadute (Barkley 1998; Pelham 1992; Vio, Marzocchi e Offredi, 1999). In una recente review Pelham e collaboratori (1998) hanno identificato diversi studi sull’efficacia di programmi di parent training rigorosamente definiti e valutati contro gruppi di controllo (Firestone et al. 1981, 1986; Horn 1991). Sebbene il Parent training non sembri in grado di indurre i marcati miglioramenti indotti dalla terapia farmacologica (Stubbe & Weiss 2000, MTA 1999a, b) sui sintomi cardine del disturbo, è in grado di migliorare in maniera significativa il funzionamento globale dei bambini e adolescenti con ADHD. Tale effetto appare strettamente correlato all’età dei soggetti: due studi mostrano significativa efficacia nei bambini in età prescolare (Pisterman et al; 1992) mentre i risultati in età scolare sono contrastanti (Pelham et al. 1998). Tali interventi appaiono efficaci anche in adolescenza ma tale miglioramento non è superiore a quello osservato nei gruppi di controllo (Barkley et al. 1992). La superiorità in età prescolare del Parent training strutturato rispetto alla lista d’attesa ed al semplice “Consiglio e Supporto (Parent Counseling and support; PC&S) è stato più recentemente confermato anche da studi europei, che mostrano come una variabile determinante per l’efficacia sia l’assenza di ADHD nei genitori (madri in particolare; Sonuga-Barke et al 2001, 2002).
Anche gli interventi di consulenza per gli insegnati sono focalizzati sul comportamento del bambino e possono essere sia integrati nelle routine scolastiche per i tutti gli alunni che focalizzati sui singoli bambini (AAP 2001). La gestione delle attività che coinvolgono tutta la classe iniziano con la definizione e progressivo incremento di attività strutturate che includano modalità sistematiche di ricompensa per le attività /comportamenti desiderati (rinforzo positivo), diminuzione dei privilegi o delle ricompense (costo della risposta) fino al blocco di ogni rinforzo positivo (time-out) per comportamenti non desiderati o problematici; la combinazione di rinforzi positivi e costo della risposta (es; il bambino guadagna ricompense e privilegi per comportamenti desiderati e le perde per comportamenti indesiderati, token economy) risulta in genere particolarmente efficace. La frequente (spesso giornaliera) comunicazione scritta con i genitori riguardo agli obiettivi ed ai risultati dell’allievo, permette ai genitori di confermare premi e punizioni anche a casa. Sia il Parent training che l’intervento a scuola permette in genere di migliorare significativamente il comportamento del bambino anche se non necessariamente riesce a rendere da solo il comportamento del bambino con ADHD simile a quello dei suoi coetanei (Pelham 1992; AAP 2001).
La diversa percezione del tempo, l’incapacità a frenare le proprie reazioni immediate, la difficoltà a pianificare e controllare i propri comportamenti fanno si che i bambini con ADHD manchino di quel “savoir faire sociale” che consente di cogliere stimoli sociali, modulare le relazioni interpersonali, ricevere gratificazioni sociali ed integrarsi socialmente con i coetanei e gli adulti. Ciò causa frequentemente senso di inadeguatezza, bassa autostima, bassa soglia alle frustrazioni. Tali “sensazioni” rendono più difficile inibire la propria impulsività, pianificare i propri comportamenti e stabilire relazioni sociali gratificanti. Il ruolo dei genitori nella gestione di tali sintomi e’ cruciale: la ripetizione nel tempo di attività piacevoli di collaborazione genitore-figlio può essere un valido mezzo a disposizione dell’adulto per poter condividere alcuni interessi del bambino, e per quest’ultimo per poter sperimentare un rilassante clima di interazioni positive, utile anche per cancellare il segno dei conflitti trascorsi.
I principi ispiratori e la definizione delle singole modalità di intervento psicoeducativo e /o psicoterapico per l’ADHD saranno oggetto di specifiche linee guida.
8a Raccomandazione
(Linea Guida; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
Il personale sanitario coinvolto nell’assistenza dei bambini/adolescenti con ADHD, deve riconoscere la natura cronica del disturbo e mettere a punto un programma di intervento adeguato.
9a Raccomandazione
(Linea Guida; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
Il personale sanitario, i genitori ed il bambino in collaborazione con il personale scolastico devono definire obbiettivi adeguati ed oggettivi dell’intervento terapeutico e pianificare, mettere in atto e verificare le strategie più opportune per raggiungere tali obiettivi. A tuttoggi le strategie terapeutiche non farmacologiche piu’ efficaci sono costituite dagli interventi psicoeducativi basati sul parent training e sulla consulenza agli insegnanti.
4. Le Terapie farmacologiche
Dopo aver formulato la diagnosi, il clinico responsabile della salute mentale del bambino con ADHD deve disegnare e mettere in atto un piano di trattamento: deve considerare che l’intervento farmacologico (gli psicostimolanti in particolare) sarà particolarmente efficace nel controllare i sintomi cardine dell’ADHD, ma anche che per molti bambini l’intervento comportamentale può essere particolarmente utile ed efficace quale trattamento primario o aggiuntivo per il disturbo, specie in presenza di condizioni, mediche, psichiatriche o sociali/familiari associate.
Gli psicostimolanti sono considerati a tutt’oggi la terapia più efficace per bambini, adolescenti ed adulti con ADHD. L’efficacia e la tollerabilità degli psicostimolanti è stata descritta per la prima volta da Bradley nel 1937, ed è stata documentata da circa 60 anni di esperienze cliniche. Su med-line sono citate circa 2400 pubblicazioni (250 nell’ultimo biennio) di studi condotti su diverse migliaia di soggetti. Dal 1996 sono stati pubblicati 161 studi controllati e randomizzati, di cui 5 su soggetti in età prescolare, 150 su soggetti in età scolare, 7 su adolescenti e 5 su adulti con ADHD (AACAP 2002). Gli psicostimolanti rappresentano la classe di farmaci maggiormente studiata in età evolutiva. Parallelamente alla disfunzione dei sistemi dopaminergici, numerose evidenze indicano che anche una disregolazione del sistema noradrenergico possa avere un ruolo importante nella fisiopatologia dell’ADHD.
Il sistema noradrenergico modula la funzione di numerose aree cerebrali (corteccia prefrontale, parietale e del cingolo, ippocampo, talamo, caudato e putamen) coinvolte nei meccanismi di vigilanza, allerta ed attenzione. Tale sistema neurotrasmettitoriale è in grado di modulare il mantenimento dell’arousal, l’inibizione delle risposte automatiche e, più in generale la memoria di lavoro (Arnsten et al 1996 , 1999; Biederman & Spencer 2000; Pliszka et al1996). Numerosi farmaci sono in grado di modulare la funzione noradrenergica: triciclici antidepressivi a struttura aminica secondaria quali desimipramina e nortriptilina, agonisti alfa-2 adrenergici quali clonidina e guenfacina, agonisti indiretti quali il bupropion e bloccanti selettivi del reuptake della noradrenalina quali l’atomoxetina. L’efficacia di questi farmaci sui sintomi dell’ADHD è stata provata da un numero variabile (da 2 a 33 a secondo del farmaco considerato) di studi controllati. Efficacia e tollerabilità di questi farmaci verranno discussi nella sezione 4.8
4.1 Farmacocinetica e meccanismi d’azione degli psicostimolanti
Il metilfenidato è lo psicostimolante più utilizzato (Spencer et al. 1996; Santosh and Taylor 2000; AACAP 2002). Questo farmaco inizia a mostrare la sua attività clinica dopo circa trenta minuti dalla somministrazione orale; raggiunge il picco di concentrazione e attività dopo un’ora, la sua attività terapeutica dura circa 3-5 ore. Il farmaco viene quindi solitamente somministrato 2-3 volte al giorno. Destroamfetamina (a seconda dei sali di esterificazione) e pemolina hanno una emivita più lunga e possono essere somministrati due volte al giorno (Swanson et al. 1998c).
Gli psicostimolanti agiscono sui trasportatori per le monoamine (Volkow et al. 1998; Santosh and Taylor 2000): Il metilfenidato modula soprattutto la quantità di dopamina (e di noradrenalina), presente nello spazio inter-sinaptico. Il meccanismo neuronale degli stimolanti non è ancora stato ancora completamente chiarito. A seconda delle situazioni e dei modelli sperimentali, tali farmaci sono in grado di potenziare una trasmissione dopaminergica deficitaria (Volkow et al. 1998), che di attenuare uno stato di iperattività dopaminergico (Solanto 1998; Zhuang et al. 2001). Cio’ puo’ essere spiegato considerando che basse dosi di metilfenidato o destroamfetamina (>1mg/kg, come quelle usate in clinica) possono aumentare, in condizioni di riposo, le concentrazioni di dopamina intersinaptica; tale aumento comporterebbe una stimolazione degli autorecettori ed una conseguente diminuzione della quantità di dopamina rilasciata nello spazio intersinaptico durante il potenziale d’azione, causando quindi una diminuzione netta della funzione di questo sistema neurotrasmettitoriale (Seeman & Madras 1998).
Numerosi studi hanno dimostrato che il metilfenidato è in grado di migliorare l’inibizione delle risposte (misura neuropsicologica dell’autocontrollo), la memoria di lavoro ed i processi di discriminazione degli stimoli: tali azioni appaiono correlate ad una diminuzione del flusso ematico nella corteccia prefrontale dorso-laterale e parietale posteriore (Metha et al. 2000). Nei bambini con ADHD, il metilfenidato aumenta l’attività metabolica striatale, mentre la diminuisce nei soggetti di controllo (Volkow et al. 1998).
4.2 Efficacia clinica a breve termine
Sulla base dei risultati di varie decine di studi controllati e di metanalisi, sono state elaborate, sia in Nord America che in Europa, specifiche linee guida cliniche per la diagnosi e la terapia del disturbo (AACAP 2002, AAP 2001, Joughin and Zwi 1999; NIH 1998; Taylor et al. 1998). Numerosi studi controllati, effettuati su bambini ed adolescenti, hanno dimostrato, mediante l’uso di scale di valutazione per genitori o insegnanti e di valutazione clinica da parte del neuropsichiatra infantile, che metilfenidato, destroanfetamina e pemolina migliorano in maniera consistente, rapida e duratura i sintomi dell’ADHD quali impusività, inattenzione ed iperattività: che tale effetto risulta statisticamente significativo anche quando i soggetti non sono accuratamente definiti, i gruppi studiati sono poco numerosi ed i dosaggi dei farmaci non omogenei (Elia et al. 1998; Rapoport and Castellanos 1996). L’efficacia clinica degli psicostimolanti permane costante anche nel corso di terapie prolungate per anni ( vedi oltre: Gilberg et al. 1997, MTA 1999a; 1999b).
Gli effetti del metilfenidato e degli psicostimolanti sul comportamento dei bambini iperattivi sono rapidi ed intensi. Questi farmaci permettono al bambino di controllare l’iperattività e l’inattenzione (Klorman et al. 1991). Durante l’assunzione del farmaco risultano migliorate le risposte ai test di attenzione (diminuiscono, a seconda delle dosi, sia gli errori di omissione che di commissione/impulsività), di vigilanza, di apprendimento visivo e verbale e di memoria a breve termine (O’Toule et al. 1993). I bambini con ADHD che assumono questi farmaci sono non solo meno impulsivi, irrequieti e distraibili, ma anche maggiormente capaci di tenere a mente informazioni importanti, di interiorizzare meglio il discorso autodiretto, di avere un maggiore autocontrollo (Gadow et al. 1990).
Spesso, alcuni atteggiamenti negativi dei genitori nei confronti dei figli possono essere causati dal comportamento inappropriato di questi ultimi: una volta che i bambini migliorano dal punto di vista comportamentale, anche i genitori riducono l’eccessivo controllo, il numero dei rimproveri e dei richiami per le loro azioni. Dopo brevi periodi di terapia risulta migliorata la qualità dell’interazione sociale con genitori, insegnanti e coetanei e diminuiscono in intensità e frequenza i comportamenti distruttivi, oppositivi ed aggressivi (Gadow et al. 1990; Schacahr et al. 1987). E’ stato anche riportato che nei soggetti con ADHD la farmacoterapia (anche con psicostimolanti) in età scolare riduce il rischio di abuso di sostanze in adolescenza che risulta aumentato nei soggetti con ADHD non curati in maniera adeguata (Biederman et al. 1999).
4.3 Effetti collaterali e controindicazioni degli psicostimolanti
Gli effetti collaterali degli psicostimolanti, e del metilfenidato in particolare, sono in genere modesti e facilmente gestibili (Spencer et al. 1996; Elia et al. 1998; Santosh and Taylor 2000). I più comuni sono diminuzione di appetito, insonnia e mal di stomaco: l’insonnia può essere prevenuta evitando le somministrazioni serali, la mancanza di appetito e i disturbi gastrointestinali somministrando il farmaco dopo i pasti. Quando il farmaco è somministrato correttamente, perdita di peso o ritardo dell’accrescimento, cefalea e dolori addominali sono rari, temporanei e raramente impongono la modifica o la sospensione della terapia (Barkley et al. 1990; Santosh and Taylor 2000; AACAP 2002) In individui predisposti, gli psicostimolanti possono indurre o peggiorare movimenti involontari, tics ed idee ossessive. In alcuni bambini, gli psicostimolanti possono indurre variazioni rapide del tono dell’umore con aumento o diminuzione dell’eloquio, ansia, eccessiva euforia, irritabilità, tristezza (disforia). Questi sintomi sono più frequenti negli adulti che assumono psicostimolanti; nei bambini, dosi elevate di farmaco possono indurre, paradossalmente sedazione e diminuzione delle capacità di apprendimento (Spencer et al. 1996).
Occorre peraltro considerare che tale bassa incidenza di effetti collaterali emerge da studi a breve termine anche se su un elevato numero complessivo di bambini: gli studi di tossicià a lungo termine (più di due anni) sono ancora relativamente limitati. L’uso della pemolina è in genere limitato dal rischio di epatotossicità.
4.4 Tossicologia
Studi di tossicità animale hanno mostrato come alte dosi di stimolanti (25 mg/kg s.c. nel ratto vs 0.3- 0.5 mg/kg nel bambino) possono indurre lesioni dei terminali serotoninergici e dopaminergici in aree specifiche del Sistema Nervoso Centrale (Battaglia et al. 1987; Moll et al. 2001). Altre evidenze mostrano che tali lesioni sono rapidamente reversibili (Yuan et al. 1997; Sadile et al. 2000). Altri studi mostrano che dosi elevate (oltre 40mg/kg per due anni) di metilfenidato possono indurre tumori epatici nei roditori (Dunnick & Hailey 1995), ma tale evenienza non è mai stata riportato nell’uomo. L’NIH Consensus Statement sull’ADHD suggerisce cautela nell’uso di dosi estremamente alte di psicostimolanti indicando peraltro che solamente dosi circa trenta volte superiori a quelle utilizzate nei bambini (intossicazione grave) potrebbero produrre tali effetti tossici (NIH 1998).
4.5 Modalità di somministrazione. Potenziale di abuso
In genere il farmaco viene somministrato durante la frequenza scolastica e si attua, quando possibile, una sospensione nei periodi di vacanza (estate): va tenuto presente che una volta sospesa la terapia gli effetti del farmaco svaniscono. La somministrazione di metilfenidato dovrebbe iniziare alla dose di 5-10 mg al mattino (0.3-0.5 mg/Kg) e successivamente titolato in due-tre somminitrazioni giornaliere. Per la titolazione sono particolarmente utili le scale di valutazione compilate da insegnanti e genitori che dovrebbero essere compilate settimanalmente ovvero ogni 15 giorni nei primi mesi di trattamento, mensilmente nei mesi successivi. La titolazione della terapia dovrebbe avvenire sia sulla base del comportamento del bambino che sul miglioramento del rendimento scolastico e della capacità di interazione sociale con i coetanei). E’ stato suggerito che la risposta clinica alla prima dose di metilfenidato possa essere considerato un parametro predittivo di efficacia del farmaco a lungo termine (Buitelaar et al. 1995).
Una volta iniziato, il trattamento viene in genere proseguito per alcuni anni (Barkley et al. 1990). Nel corso della terapia è opportuno un monitoraggio mensile della terapia: le scale di valutazione di genitori ed insegnanti sono un utile completamento della valutazione medica. Almeno una volta all’anno è opportuno valutare l’utilità di continuare il trattamento: spesso il bambino, diventato adolescente, riferisce di sua iniziativa di non aver più bisogno del farmaco per stare attento.
Nei bambini, gli effetti terapeutici degli psicostimolanti non diminuiscono con l’uso prolungato, l’abuso e la dipendenza sono praticamente inesistenti (Barkley et al. 1990; Spencer 1996). Nonostante negli animali di laboratorio metilfenidato e destromafetamina mostrino caratteristiche predittive di potenziale d’abuso (self-administration, place- preference, preferenza nei confronti del cibo), studi effettuati mediante Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), mostrano che nell’uomo gli psicostimolanti di uso clinico assunti per via orale presentano una cinetica significativamente differente dalla cocaina ed amfetamina assunta per via parenterale e mostrano minore (amfetamina) o nessuna (metilfenidato) capacità di indurre euforia (Volkow 1995). Inotre, alcuni studi mostrano che tra gli adolescenti ADHD trattati con psicostimolanti da bambini, la percentuale di soggetti che fa abuso di sostanze psicotrope è significativamente minore rispetto alle percentuali osservabili negli adolescenti ADHD non trattati (Biederman et al. 1999, Huss et al. , in stampa).
Anche sulla base di tali dati recenti, la possibilità di un uso incongruo da parte degli adolescenti deve invece sempre essere considerata possibile: è sempre indispensabile che il medico monitorizzi l’uso adeguato del farmaco e sia certo che non venga utilizzato in modo incongruo dai familiari o dai coetanei del ragazzo, o dal personale scolastico che dovesse eventualmente somministrarlo E’ stato anche riportato che la farmacoterapia dell’ADHD riduce il rischio di abuso di sostanze in adolescenza (Santosh and Taylor 2000).
Uno studio recente, confrontando in animali molto giovani ed adulti l’effetto di somministrazioni prolungate di metilfenidato sulla successiva sensitizzazione alla cocaina, ha dimostrato che la sommistrazione precoce di metilfenidato produce avversione per la cocaina, anche in condizioni sperimentali che, nell’animale adulto, favoriscono l’effetto gratificante delle sostanze d’abuso: tali differenze appaiono correlate, nelle diverse età della vita, all’attivazione di specifici meccanismi genici (Anderson et al. 2002).
4.6 Enantiomeri e formulazioni a lento rilascio
Il metilfenidato è una amina secondaria con due atomi di carbonio asimmetrici. Può quindi esistere in quattro forme isomeriche: d-treo, l-treo, d-eritro ed l-eritro. Inizialmente il metilfenidato in commercio era costituito per l’80% da dl-eritro e per il 20 % da dl-treo. Poichè solo gli isomeri treo sono attivi, le prepazioni attualmente in commercio non contengono più forme eritro- responsabili invece degli effetti cardiovascolari. Poichè il metilfenidato subisce un intenso metabolismo al primo passaggio epatico, i derivati idrossilati potrebbero presentare una significativa stereospecificità nel modulare sia efficacia clinica che gli effetti indesiderati. Nel ratto l’isomero d-treo risulta più potente rispetto alla forma l-treo nell’indurre iperattività motoria e inibizione del reuptake di dopamina e noradrenalina. Recentemente è stata presentata alla Food and Drug Administration degli Stati Uniti la richiesta di autorizzazione alla commercializzazione di una preparazione di d-treo metilfenidato. Studi preliminari indicano che tale preparazione mostra una durata d’azione di 8-12 ore e non presenta effetto rebound da fine dose (Swanson and Volkow 2000).
Le modalità di somministrazione degli psicostimolanti,e del metilfenidato in particolare, possono comportare alcuni problemi, quali il fatto che il picco plasmatico e di attività viene raggiunto durante periodi di attività non strutturata (es. percorso casa-scuola, periodi di gioco o riposo post-prandiale), difficoltà nella somministrazione della dose intermedia durante l’orario scolastico (sia per la possibile non disponibilità del personale scolastico che lo stigma assocciato alla sua assunzione in ambiente “pubblico”). Negli ultimi anni sono state sviluppate diverse preparazioni a rilascio prolungato che appaiono particolarmente utili quando insorgono tali problemi.
Sono attualmente disponibili sul mercato degli Statui Uniti due preparazioni a lento rilascio: Concerta®, basato su un sistema di rilascio osmotico (Osmotic Release Oral System, OROS) e Metadate-CD® basato su un sistema microsfere a doppio rilascio. Sono state presentate per l’approvazione della Food and Drug Administration altre due preparazioni: Ritalin-LA®, preparazione che permette con una sola somministrazione di ottenere due picchi ematici distinti, e Adderall-XL®, miscela di sali di Amfetamina a rilascio programmato.
Per alcune di tali preparazioni è stato riportato che una singola dose produce effetti identici alla somminsitrzione giornaliera di tre dosi a rilascio immediato e che la particolare formulazion e rende più complesso se non impossibile l’uso incongruo dello psicostimolante (Jaffe, 2002; Pelham et al. 2001; Wolraich et al. 2001).
4.7 Effetti a medio termine: lo studio MTA
A tutt’oggi esistono relativamente pochi studi che descrivono gli effetti del metilfenidato in trattamenti a madio-lungo termine: nel loro insieme indicano che l’efficacia del farmaco viene conservata senza comparsa di tolleranza e senza significativi effetti collaterali (Schachar et al 1997; Gillberg et al 1997).
Recentemente sono stati pubblicati i risultati del più importante studio di efficacia delle terapie mai effettuato su bambini con problemi psichici. Lo studio (Multimodal Treatment Study of Children with ADHD, MTA) coordinato dall’Istituto Nazionale per la Salute Mentale (NIMH) degli Stati Uniti, che ha confrontato, su un totale di 579 bambini con ADHD di età compresa tra i 7 e 9 anni, l’efficacia del trattamento psicoeducativo e comportamentale intensivo (parent training manualizzato prolungato, behavioural modification e social skill training per i bambini, training e supervisone per gli insegnanti), del trattamento esclusivamente farmacologico, dell’intervento combinato farmacologico e psicoeducativo, confrontandoli con un trattamento di routine, usato come gruppo di confronto (Richter et al. 1995; MTA 1999a; 1999b). Le prime tre strategie terapeutiche sono state effettuate in maniera rigorosa e rigidamente predefinita presso centri universitari altamente specializzati, con controlli clinici settimanali o, al massimo, mensili. Il trattamento di routine effettuato presso le strutture territoriali, poteva comprendere l’uso di farmaci, in genere psicostimolanti, consigli ai genitori e talvolta agli insegnanti, con visite ogni tre-quattro mesi.
Dopo 14 mesi, tutti i quattro gruppi (ciascuno costituito da circa 145 bambini) risultavano migliorati; la terapia esclusivamente farmacologica e quella combinata risultavano più efficaci dell’intervento psicoeducativo intensivo senza farmaci o del trattamento di routine presso strutture territoriali, nessuna differenza era evidente tra il trattamento esclusivamente farmacologico e quello combinato. Quest’ultimo risultava moderatamente più efficace nei bambini con ADHD e disturbi d’ansia associati. D’altra parte il trattamento psicoeducativo intensivo risultava di efficacia simile al sottogruppo di bambini cui venivano prescritti i farmaci con modalità di routine presso le strutture territoriali. Un’analisi alternativa dei risultati dello studio ha misurato le percentuali di bambini che, trattati con le diverse modalità prima descritte, risultano clinicamente indistinguibili dai bambini non ADHD. Ciò avviene nel 25% dei bambini che ricevono il trattamento di routine, nel 34% di quelli che ricevono l’intervento psicoeducativo e comportamentale intensivo, nel 55 % dei bambini che ricevono l’intervento solo farmacologico e nel 67% di quelli che ricevono l’intervento combinato. (Conners et al. 2001).
I risultati di questo studio suggeriscono alcune considerazioni. La prima è che ogni intervento terapeutico per i bambini con ADHD deve essere accuratamente personalizzato, preceduto da una accurata valutazione clinica e seguito con frequenti visite di controllo (almeno mensili). La seconda è che la terapia farmacologica, quando accurata e rigorosa, costituisce la risorsa più efficace e potente per aiutare i bambini con ADHD. Ne consegue che tale terapia dovrebbe essere disponibile per tutti i bambini con ADHD, nei quali l’intervento psicoeducativo risulti solo parzialmente efficace. La terza e’ che la combinazione della terapia farmacologica con l’intervento psico-educativo offre alcuni vantaggi rispetto al trattamento esclusivamente farmacologico: migliora le relazioni con i coetanei, aumenta la soddisfazione dei genitori per il trattamento, permette di utilizzare minori dosi di farmaco. L’efficacia dell’intervento combinato sui sintomi cardine dell’ADHD e’ pero’ simile a quella del trattamento esclusivamente farmacologico. E’ stato suggerito che quando quest’ultimo sia stato scelto come trattamento di prima scelta e risulti efficace (bambino indistinguibile da un bambino non ADHD), l’aggiunta di un intervento cognitivo comportamentale intensivo non dovrebbe essere routinario, ma focalizzato a raggiungere specifici obbiettivi, in casi selezionati (Santosh and Taylor 2000).
4.8 Altri Farmaci
Come precedentemente riportato numerose evidenze sperimentali, insieme all’efficacia clinica di diversi farmaci ad azione adrenergica indicano un coinvolgimento del sistema noradrenergico nella fisiopatologia dell’ADHD. Farmaci quali la desimipramina e la nortriptilina, caratterizzati dalla presenza di un’ammina secondaria sono in grado di bloccare, sebbene in maniera non selettiva, la ricattura (reuptake) della noradrenalina da parte della terminazione sinaptica. Sono stati pubblicati a tutt’oggi 33 studi (21 controllati) sugli effetti di questi farmaci su bambini, adolescenti (n=1139) e adulti (n=78) con ADHD. Il più ampio studio randomizzato e controllato con placebo e’ stato condotto somministrando desimipramina (dose media giornaliera 5mg/kg) per 6 settimane su 62 bambini: nel 68% dei bambini trattati con farmaco attivo (contro il 10% del gruppo con placebo) e’ stato osservata un significativo miglioramento clinico (Biederman et al; 1989). Simili risultati sono stati osservati con la nortriptilina (2mg/kg/die) su 35 bambini in età scolare (studio controllato contro placebo, randomizzato con su gruppi paralleli); A differenza del metilfenidato gli effetti terapeutici appaiono dopo alcune setttimane di terapia (Prince et al., 2000).
Tali effetti terapeutici dei triciclici antidepressivi sono però attenuati dal rischio di cardio-tossicità di questi farmaci: sono infatti stati riportati una decina di casi di morte improvvisa in soggetti in età scolare che assumevano tali farmaci. Sebbene il nesso causale con l’assunzione di questi farmaci sia tuttora incerto e la frequenza di eventi riportati indichi un’incidenza simile al rischio basale di morte improvvisa per tale fascia di età, un atteggiamento prudenziale suggerisce di utilizzare tali farmaci solo dopo aver attentamente valutato il rapporto rischi/ benefici attesi, rendendo tali farmaci utilizzabili solo in situazioni particolari, in cui gli psicostimolanti sono controindicati (tics, idee ossessive, rischio di uso incongruo) o provocano gli effetti collaterali prima descritti.
Sono attualmente in avanzata fase di sperimentazione clinica nuovi farmaci che, bloccando in maniera altamente selettiva la ricattura della noradrenalina, sembrano essere più specifici per l’ADHD. Uno di questi farmaci, l’Atomoxetina è attualmente in avanzata fase di registrazione. L’atomoxetina è stato sviluppato, anche nella fase preclinica (tossicologia ed effetti su accrescimento corporeo e maturazione sessuale e cerebrale), specificamente come farmaco per l’età evolutiva. Diversi studi controllati condotti sia su adulti (Spencer et al. 1998), che su bambini ed adolescenti (Kratochvill et al. 2001, Michelson et al. 2001, Spencer et al. 2001) con dosi 1-1.8 mg/kg/die in una-due somminitrazioni giornaliere, indicano che l’atomoxetina mostra una efficacia simile agli psicostimolanti con minori effetti collaterali (la diminuzione dell’appetito è in genere quello più frequente) e nessun potenziale d’abuso. Tale caratteristica, se gli effetti terapeutici e la tollerabilità saranno confermati anche mediante lo studio accurato dei suoi effetti sulle funzioni esecutive, potrebbe far diventare l’atomoxetina, e simili sostanze ancora in fasi molto iniziali di sperimentazione (es. GW 320659), i farmaci di prima scelta nella terapia dell’ADHD.
Sebbene siano stati pubblicati pochi studi che ne documentino efficacia e tollerabilità (5 studi di cui solo due controllati; n=258 bambini), la clonidina, farmaco capace di modulare la trasmissione noradrenergica stimolando i recettori alfa –2 (in corteccia sia pre- che post- sinaptici; Arnsten 2000) viene frequentemente utilizzata nella terapia dell’ADHD. Gli effetti terapeutici della clonidina appaiono limitati all’iperattività con scarsi effetti cognitivi; il suo uso e’ limitato anche dalla breve emivita e soprattutto dalla comparsa di tolleranza dopo pochi mesi. (Singer et al. 1995 Spencer et al. 1996). Un recente studio, controllato in doppio cieco, cross-over con placebo e con metilfenidato, condotto su 136 bambini con ADHD e S. di Gille de la Tourette per 16 settimane (4 settimane per ogni trattamento) ha mostrato che clonidina e metilfenidato erano entrambe efficaci sui sintomi dell’ADHD (Clonidina piu’ su impulsività ed iperattività, Metilfenidato più su inattenzione) e che l’associazione clonidina + metilfenidato era piu’ efficacacia dei due farmaci da soli sia su sintomi di ADHD che sui tics (The Tourette’s Syndrome Study Group, 2002). Negli anni scorsi sono stati riportati diversi casi di morte improvvisa in bambini che assumevano clonidina + metilfenidato. Tale assoiciazione farmacologica dovrebbe essere quindi limitata a casi attentamente selezionati e monitorati. La guanfacina e’ un analogo della clonidina con più lunga emivita e minore effetto sedativo. Un recente studio controllato con placebo su 34 bambini con ADHD di tipo combinato e tics ha confermato i risultati di tre studi in aperto (totale 36 bambini, dosi tra 1.5-3 mg/die in tre somministrazioni), dimostrando l’efficacia e la tollerabilità di questo farmaco in bambini con ADHD (Scahill et al; 2001). E’ stato recentemente riportato anche un caso di viraggio maniacale da guanfacina (Horrigan & Barnhill 1999).
Recentemente è stata dimostrata l’efficacia sui sintomi dell’ADHD di sostanze che modulano la funzione del sistema dopaminergico ma non hanno attività psicostimolante quali il bupropion (Wilens et al. 2001) e per farmaci che modulano la funzione colinergica (ATB-418; Wilens et al. 1999). Il numero di studi controllati su tali farmaci e’ pero’ estremamente limitato.
10a Raccomandazione
(Standard Minimo; forza delle evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
A partire dall’età di sei anni, gli psicostimolanti costituiscono a tuttoggi la terapia più efficace per l’ADHD anche se numerosi farmaci non-stimolanti sono in avanzata fase di valutazione clinica o di registrazione e potrebbero costituire una valida alternativa terapeutica.
Prima di iniziare una terapia farmacologica è indispensabile documentare una adeguata valutazione clinica, i precedenti interventi terapeutici sia psicoeducativi che farmacologici. Tali informazioni devono comprendere nome dei farmaci utilizzati, dosaggi, durata del trattamento, risposta clinica ed eventuali effetti collaterali, valutazione della compliance. Altre informazioni utili comprendono l’uso di risorse scolastiche aggiuntive (insegnante di sostegno, educatore) e le modalità di intervento psicoeducativo (parent training, behavioral modification, etc.).
11a Raccomandazione
(LineeGuida Cliniche; forza delle evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte): Tutti i pazienti in etaí evolutiva devono essere sottoposti ad esame medico e neurologico prima della prescrizione degli psicostimolanti. Devono essere registrati in cartella pressione arteriosa, frequenza cardiaca, peso ed altezza.
12a Raccomandazione
(LineeGuida Cliniche; forza delle evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte): Prima di iniziare il trattamento, occorre definire le modalità di titolazione del farmaco (es. 5 mg/die di metilfenidato con successivi incrementi posologici di 5mg/dose/giorno) ed i metodi/ strumenti per valutare la risposta al farmaco (es. questionari per genitori ed insegnanti) e gli eventuali effetti collaterali.
13a Raccomandazione
(Standard Minimo; forza dellíevidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
Prima di iniziare la terapia con psicostimolanti è indispensabile concordare con i genitori ed il paziente la periodicita’ dei controlli clinici. Tali controlli dovrebbero avere cadenza settimanale durante la fase di titolazione, mensile durante la fase di mantenimento. Ad ogni controllo clinico saranno valutati effetti terpautici , segni vitali ed eventuali effetti indesiderati.
14a Raccomandazione
(LineeGuida Cliniche; forza dell’evidenze: buona; forza della raccomandazione: forte):
Gli effetti collaterali degli psicostimolanti sono rari, di breve durata; quelli piu’ comuni sono: ritardo nell’addormentamento, diminuzione dell’appetito, perdita di peso, tics, dolori addominali, cefalea, ed irrequietezza. Tali effetti sono rapidamente responsivi a modificazioni di dose od alla sospensione del trattamento.
15a Raccomandazione
(Linee Guida Cliniche; forza dell’evidenza: scarsa; forza della raccomandazione: forte): Qundo la modalità di trattamento prescelta risulti inefficace, il clinico deve riconsiderare: la diagnosi iniziale, la aderenza al trattamento da parte del paziente e della sua famiglia, la presenza di altre patologie associate, la possibilità di trattamenti alternativi.
5. Bibliografia
Tab. 1. ADHD – Criteri diagnostici secondo il DSM IV
A. Sei o più sintomi di Inattenzione (A1) o di Iperattività/Impulsività (A2) presenti per almeno 6 mesi.
Sintomi di Inattenzione (A1)
- Scarsa cura per i dettagli, errori di distrazione
- Labilità attentiva.
- Sembra non ascoltare quando si parla con lui/lei.
- Non segue le istruzioni, non porta a termine le attività.
- Ha difficoltà ad organizzarsi.
- Evita le attività che richiedano attenzione sostenuta (compiti etc.).
- Perde gli oggetti.
- E’ facilmente distraibile da stimoli esterni.
- Si dimentica facilmente cose abituali.
Sintomi di Iperattività / Impulsività (A2)
Iperattività
- Irrequieto, non riesce a star fermo su una sedia.
- In classe si alza spesso anche quando dovrebbe star seduto.
- Corre o si arrampica quando non dovrebbe.
- Ha difficoltà a giocare tranquillamente.
- Sempre in movimento, come “attivato da un motorino”
- Parla eccessivamente.
Impulsività
- Risponde prima che la domanda sia completata.
- Ha difficoltà ad aspettare il proprio turno.
- Interrompe o si intromette nelle attività di coetanei o adulti.
B. Esordio prima dei 7 anni di età
C. Disturbo presente in almeno due situazioni (scuola, casa, lavoro, gioco, etc.)
D. Compromissione significativa del funzionamento sociale, scolastico, occupazionale.
Specificare se:
- ADHD tipo prevalentemente Inattentivo (ADHD-I)
- ADHD tipo prevalentemente Iperattivo impulsivo (ADHD-HI)
- ADHD tipo Combinato (A1+A2) (ADHD-C).
Tab. 2. Diagnosi differenziale e comorbidità
Disturbi Psichiatrici
- Disturbo Oppositivo-provocatorio
- Disturbo di Condotta
- Disturbi dell’Umore
- Disturbo bipolare
- Disturbi d’ansia
- Disturbo ossessivo compulsivo
- Disturbi dell’Adattamento con sintomi di D. della condotta
- Sindrome di Gille de la Tourette / tic multipli
- Disturbi di personalità
- Disturbi specifici dell’apprendimento.
- Ritardo mentale
- Disturbo pervasivo dello sviluppo
Disturbi neurologici e Patologie Mediche
- Disturbi sensitivi ( sordità defict visivo)
- Effetti indesiderati di farmaci (antistaminici, betaagonisti, benzodiazepine, fenobarbital)
- Epilessia
- Patologie tiroidee
- Ascessi, neoplasie del Lobo frontale,
- Trauma cranico
- Abuso di sostanze
- Intossicazione da piombo
Disturbi di sviluppo
- Vivacità fisiologica
- Problemi situazionali, ambientali, familiari.
- Inadeguato supporto scolastico (lieve ritardo o ,viceversa, particolare vivacità intellettiva con programmi scolastici “standard”)
- Alterato supporto ambientale, sociale, familiare (ambiente caotico, divorzio, abbandono, abuso)
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